

Racconto dim a n d a l a
Antonio Ferrin
pubblicato nel 2011
Sono caduto dal letto: ora sono sveglio, supino sul pavimento e roteo gli occhi sulle pareti della stanza rischiarata da lame di luce che filtrano dalle finestre. Dalla porta giungono i suoni consueti prodotti dal chiacchiericcio di mia madre che prepara la colazione, di mio padre e mia sorella che si apprestano a recarsi al lavoro;la mamma ha già chiamato più volte, ma ho fatto finta di nulla: trovo piacevole indugiare ancora, e d'altra parte devo raccogliere le idee, controllare l'ansia che mi attanaglia e quindi decidere il da farsi per togliermi da questa situazione imbarazzante. Ma mia madre non desiste e mi esorta con decisione perché infine io lasci il tepore del letto, ma lei ignora che sono sul duro e freddo pavimento senza che riesca a muovermi, e non ho coraggio di chiedere il suo aiuto; cerco invano di cambiare posizione, provo a sollevarmi facendo leva sulla sponda del letto ma non ho forza nelle braccia né mi sorreggono le gambe che sembrano due legni secchi.
Allora, svuotato di energia, riprendo la posizione supina sul pavimento e considero la bizzarria di quanto mi succede; ieri sera dopo la lite quotidiana con mio padre, mi sono isolato nel mio studiolo a frugare nelle carte di lavoro, ho letto due pagine di un racconto di Gogol, " Il naso" e mi sono coricato pensando all'ometto che deve andare al lavoro ma nel frattempo scopre con raccapriccio che il suo naso non c'é.
Esplora il viso con le mani, non lo trova e invece al suo posto c'é una ferita piatta, rimarginata perfettamente. E' sconvolto e non vuole uscire di casa senza il suo naso, e pensando ai colleghi che lo derideranno, la sua mente va all'immagine che lo specchio gli ha riflesso: è ridicola, deformata e deturpata e tuttavia non spaventosa, ma piuttosto aliena.
Dunque la casa era già silenziosa e, nell'oscurità, solo la debole luce di un lampione stradale rischiarava il lungo corridoio che conduce al mio letto; mi sono addormentato subito, certo che nulla avrebbe sconvolto la mia vita, che il mattino dopo avrei ripreso il mio posto di Applicato allo scrittoio nero, con calamaio e i pennini ordinati e pronti all'uso.
E invece questa mattina sono stupito e incredulo. Il naso è al suo posto, ma il corpo e tutti i sensi trasmettono i segnali dei radicali cambiamenti intervenuti nella mia vita; il tempo scorre, inesorabile, e l'angoscia spadroneggia e alimenta le elucubrazioni: sono ancora disteso sul pavimento, ora diaccio, mio padre e mia sorella sono usciti, e mia madre urla di alzarmi mentre uscendo sbatte la porta. Sono finalmente solo, quasi sollevato in questa solitudine, attento ai rumori stradali: un latrato lontano, i rintocchi argentini del "Gesù Redentore", e il vociare allegro di scolaresche che raggiungono gli Istituti del "Polo Leonardo".
La mia mente fluttua tra i pensieri che l'affollano ma io evito di soffermarmi sulla mia condizione, poiché temo di affrontare questo stato umiliante che diminuisce la mia vita, ne inibisce la vitalità e la dignità.
Verranno barellieri per portarmi in qualche ospedale, sarò accudito e curato forse con umanità dal personale che necessariamente dovrà violare la mia intimità.
Finalmente osservo meticolosamente il mio corpo: le gambe sono inerti e il culo mi pesa al punto che non riesco a sollevarlo, solo le braccia sono libere, mentre
sulle mani non riesco a fare leva perché alcune dita sono compromesse dalle
numerose cadute degli ultimi tempi. Quindi sono paralizzato, ma la mente è lucida, così mi pare. E penso alla parabola della mia vita frastagliata di bene e male che io, ottimista, pensavo fossero parte della stessa vita, e mi sfuggiva la verità che il mio essere, mentre si dimenava nei suoi meandri aggrappato alla
vita con la forza della speranza e dell'istinto di conservazione, lentamente esauriva le energie e discendeva la china, inesorabile, per inerzia.
Ora, quasi in balìa di forze incontrollate, mi lascio condurre sempre più lontano come un pezzo di legno trascinato da torrente impetuoso. Ciò è tanto più doloroso per la lucididità e consapevolezza con cui osservo il mio percorso: guardo con distacco, quasi non fossi io colui che va libero senza controllo, senza meta.
Per un attimo mi illudo che potrei arrestare questa corsa, ma non c'è stimolo che comandi i muscoli e li faccia agire.
Davanti ai miei occhi si dipana l'intrico della vicenda umana, eterna nella sua continuità e io, come il bambino, sono attonito, incerto se ciò che vedo o percepisco sia vero o frutto di una fertile attività onirica. Per un attimo mi abbandono a un benefico torpore tra i muri bianchi che rimandano il respiro come rantolo estremo e, tra sonno e veglia, la mente indaga altri mondi di infiniti colori e geometrie fantasmagoriche che fuggono veloci in corridoi siderali; la musica nuova, di bellezza ineffabile, regala dolcezza, quasi un'estasi dei sensi.
Esco dal torpore e dalle allucinazioni, le piastrelle del pavimento sono sempre più fredde, e il gelo invade il mio corpo; eseguo piccoli movimenti per trascinare la trapunta sul mio giaciglio ma l'operazione è così macchinosa e faticosa che mi accontento di un lembo della coperta. Sono spossato e ricordo che non ho fatto colazione, penso al calore della cucina, alla tazza fumante e al
braciere ardente.
Invece sono quì, prigioniero del mio corpo e ho perso la cognizione del tempo: che ora è? Quando rientreranno i miei? Ma ritorneranno? Sono domande oziose perché dovrei piuttosto pensare alla condizione in cui mi trovo; sono in completo isolamento, il telefono è irraggiungibile, sono lontano dall'ingresso dell'appartamento e i pochi segni di vita provengono dall'esterno dove brulica la vita.
E mi appare, improvvisa, la sua immagine: lei mi fissava e rideva del mio stupore, era seduta al tavolo di cucina e, le gambe divaricate, mostrava il biancore dello slip.
Mi fissava e sventagliava le banconote nelle mani come carte da gioco.
Sono lampi di memoria o delirio che vincono la coltre di sonno che mi coglie improvviso e al quale mi arrendo, ma subito il trillo del telefono mi scuote e, dimentico della mia condizione, per istinto sono proteso verso il telefono, ma ogni sforzo è vano, e io sempre più frustrato da questi tentativi velleitari.
Guardo con intensità la finestra attento a decifrare suoni e rumori che vengono dalla strada piena di strepiti prodotti dal traffico convulso dei lavoratori che entrano in pausa. Sale fino a me l'eco del rombo di tuono, quel sordo rotolare degli elementi che annuncia lo scatenarsi di violenti temporali, ma non si apriranno le cateratte perché l'aria di scirocco entra nella stanza e impasta la bocca di sabbia.
E la minaccia di pioggia si allontana con il clamore del traffico che si attenua e si spegne in fondo alla via del mare, quel mare che non potrò mai raggiungere; mi restano solo spezzoni di ricordi dei giochi sulla rena, della pelle bruciata dal sole e di mia madre che leniva il fuoco sulla pelle spalmandovi la chiara di uovo.
Torna la quiete e sono determinato a compiere nuovi tentativi per sollevarmi dal pavimento e distendermi sul letto; faccio appello alle mie energie residue e con uno sforzo estremo riesco infine a sollevarmi sulle ginocchia e appoggiare i gomiti sul letto: ora ho una visione di insieme della stanza e posso osservare il disordine che vi ho creato con il mio goffo movimento sul pavimento, dove, tra l'altro, ho lasciato tracce della mia urina, ormai incontenibile.
Stremato, abbandono il capo e il busto sul materasso e godo per pochi minuti
di un oblio felice e ristoratore, e sogno : dalla collina rotolavo nel grano verde di maggio e vi tracciavo impervi sentieri, correvo al mare linea azzurra all'orizzonte, e stremato affondavo il viso nella terra ocra chiara. Erano ristoro e gioia il sapore di terra, l'aria marina di scirocco e il brusio lontano di greggi governate da cani sapienti, ma il latrato di Dora, il mio cane, mi sveglia e io sobbalzo senza sapere se sogno o sono desto, né se il cane che mi ha svegliato è la mia Dora che, tra l'altro, dovrebbe essere morta all'incirca da 40 anni. Acquisto lucidità e consapevolezza per capire che solamente il ricordo di Dora, ingannato dal sonno, mi ha fatto visita.
Sollevo il capo e la litografia appesa sul letto mi incuriosisce, è un quadro che in passato non aveva suscitato in me molto interesse: è la grande lito di un pittore svizzero-tedesco, compagno, ora defunto, della mia titolare Schaufelberger e rappresenta un Mandala tibetano policromo, ricco di simboli e graffiti runici che rimandano a ideologie, religioni e dogmatismi di ogni genere, anche i più funesti per l'umanità; me ne aveva fatto dono la Schaufelberger in occasione della prematura scomparsa di Tina, mia sorella. Dietlinde, questo il nome della Schauferberger, a dispetto del nome aggraziato, era giunonica, alta di statura, il viso cavallino e capelli biondi e folti; aveva il piglio di chi è abituato al comando e infatti aveva creata dal nulla un'impresa di import-export che operava in tutta Europa.
Nel dipinto, tra i vari simboli esoterici, si intravedono alcune lettere e un un monito: "Du spannst und leidest, reissen darfst du nicht ", che in una traduzione 'ad sensum' significa: "Ti dibatti, soffri e ti lamenti, ma non puoi fuggire la realtà"; il quadro, in basso a destra, è siglato da due lettere: H.H. che in seguito avrei saputo trattarsi di Heinz Huren il compagno della Schaufelberger che non avrebbe più fatto ritorno dalla Germania, alla fine della Guerra.
Avevo già notata questa Lito in occasione della mia prima visita a Zurigo, in Toedistrasse, dove era esposta nell'ufficio della signorina, ma fu uno sguardo rapido e superficiale.
Infine mi scuoto e torno alla realtà: sono quì da troppo tempo, mi distendo sul fianco destro e con movimenti lenti e faticosi, facendo leva su bacino, anca e braccio destro, riesco a strisciare lentamente verso la porta; sono affaticato e dolorante e tuttavia riesco ad avanzare nell'ingresso giorno, dal quale posso entrare in cucina e nella zona notte, ma, poiché mi trascino a fatica e con la lentezza di un bradipo menomato, non potrò andare molto lontano.
Un picchiettìo sul vetro della finestra richiama la mia attenzione: è una tortorella che osserva l'interno della mia camera con occhietti mobilissimi, svolazza sul davanzale e si libra con l'evidente volontà di intrufolarsi, sbatte sul vetro più volte, poi desiste dal suo tentativo; si posa ancora, riprende a fissare con interesse e sembra voglia comunicare con me, ma il vetro ci separa, sento solo il suo monotono richiamo e mi illudo che la sua visita sul davanzale non sia casuale: il tutto ha parvenze di una presenza arcana e inquietante.
Infine, con un frullare d'ali, s'invola e scompare tra vecchi coppi sconnessi.
Oggi c'è il sole, e il suo tepore riscalda la mia stanza che guarda il Reno solcato dalle chiatte dirette a Nord; si sente il borbottio sordo dei potenti Diesel, le tolde dei battelli sono deserte, quasi fossero natanti lasciati a se stessi, e che invece un'intelligenza occulta conduce in lunghe file nei porti Olandesi del Mare del Nord. Sono i giorni del Carnevale Basilese, i cittadini trasgrediscono le regole, si liberano dei freni inibitori e impazzano per la città. Le finestre sono spalancate e mi soffermo a osservare il poderoso e livido corso del Reno che scorre sotto il MittelereBrucke, mentre l'aria marzolina spazza la stanza della Pension Bianca.
Sono a Basilea, proveniente da Zurigo; la Litografia nello studio della signorina Schaufelberger e il racconto che la stessa mi aveva fatto della vita di Heinz Huren, il suo compagno scomparso misteriosamente, mi aveva incuriosito per varie ragioni. Heinz era di Kloten, ma viveva a Zurigo dove possedeva una piccola galleria d'arte con annesso uno studiolo in cui dipingeva quadri nei quali esprimeva il suo mondo interiore con passione e creatività, e nella quale prediligeva riprodurre i soggetti di ispirazione religiosa propri dell'Induismo e del Buddismo, come i Mandala che amava rappresentare in una grande varietà di colori e forme geometriche dagli imperscrutabili significati
Nello stesso tempo conobbe la signorina Dietlinde a una mostra d'arte, familiarizzarono e il pittore si trasferì a Zurigo nell'appartamentino della donna in Gasometerstrasse.
Heinz colto e curioso di tutto, attento alle avanguardie, progressista e anticonformista, nonché inguaribile idealista, aveva scelto di vivere e lavorare nella Foresta Nera, una regione del Baden bellissima, confinante con la Renania. Attraversavamo il ponte sul Limmat a Zurigo quando la signorina mi disse della scelta politica di Heinz Huren che, all'ascesa al potere di Hitler e del Nazismo, benché non avesse simpatia per i Nazisti, preferì non tornare in Svizzera perché godeva ancora della libertà di viaggiare tra i due Paesi, e d'altra parte, amava troppo la Foresta Nera, come avrebbe potuto rinunciarvi? Basilea è un punto nevralgico alla frontiera di Francia e Germania da cui si irradiano le vie di comunicazione per tutta Europa; da quì con un torpedone, seguendo il corso del Reno, raggiungerò Friburgo in Brisgovia, capoluogo della Foresta Nera e punto di partenza ideale per inoltrarmi nella regione dove, seguendo le orme di Heinz Huren, spero di conoscere i luoghi dove egli ha vissuto.
La Foresta Nera (la Marciana Silva dei Legionari romani) non ha nulla della "Selva Oscura" di dantesca memoria; gode di un clima benigno, è ricca di acqua, non ha elevati rilievi montuosi, e campi e pascoli si alternano alla foresta folta di abeti altissimi creando spazi ameni, mentre preziosi raggi di sole giocano tra gli abeti e il sottobosco.
Heinz si stabilì a Triberg, in una baita vicina alle cascate dove l'acqua, nebulizzata nella caduta, si solleva in nuvole caliginose che si dissolvono tra le fronde degli alberi.
Si mise a dipingere, a esplorare la foresta e il sottobosco da cui ricavava anche sostentamento; i giorni si susseguivano e nella piccola Triberg cominciò a frequentare i paesani che si riunivano nella birreria "zum Engel" e che ormai lo indicavano come "lo svizzero".
Heinz, come molti uomini, cercava la sua Walden, cioé il suo angolo di terra in cui vivere libero, secondo natura: forse lo aveva affascinato l'esperienza di Thoreau con la sua "vita nei boschi".
Era sedotto dal richiamo discreto ma costante della macchia compatta di abeti diritti come fusi che spandevano fragranze rarefatte e dai quali filtravano suoni e richiami seducenti: vagheggiava infatti che esseri fiabeschi popolassero la Foresta.
L'uomo Huren, a fronte di una realtà opprimente e ostile, pensava all'evasione come panacea prodigiosa di ogni male, quasi fosse possibile e a portata di mano una realtà a propria misura, ma presto la vita gli svelava la grande illusione di un'inutile fuga. Dopo alcuni giorni dal suo arrivo, lo raggiunse la sua Dietlinde. Heinz aveva sperato che lei si unisse a lui nella scelta già fatta, ma lei, ritta e radicata nella sua terra come un abete centenario, ponderò il pro e il contro della situazione, ne parlarono a lungo e infine la donna decise di non lasciare Zurigo.
Agirono da persone libere ma non si dissero addio: confermarono l'affetto che li univa con l'intesa che avrebbero mantenuto il rapporto epistolare.
D'altra parte non li univa la passione fisica, ma affinità elettive per interessi e sensibilità culturali condivise.
Ho preso una camera in un alberghetto nei pressi di Triberg; con circospezione vorrei avere informazioni di Heinz, lo ricordano?
Le prime risposte sono deludenti, i paesani sono evasivi e poco disponibili alla conversazione; ho il sospetto che non siano interessati a un argomento che li riporta a tempi lontani e forse rimossi: trattandosi del periodo Nazista è comprensibile, ma insisto nella mia ricerca.
Raggiungo Baden Baden e i suoi stabilimenti termali, Furtwangen, Todtnau e i laghi Schluchsee e Titisee. Trascorsi alcuni giorni dal mio arrivo, sono avvilito e stanco: sono tentato di desistere da ciò che mi appare un'impresa impossibile.
Infine l'incontro fortuito con un signore molto anziano che, lento e prudente, risale il mio sentiero, mi riempie di speranza. Herr Toni Pruscha è diretto a Gutach, un paesino alle pendici del Feldberg dove le case hanno il tetto di paglia, e tutta la zona è ricca di colline, boschi, pascoli, vallate, piccoli laghi e cascate: su pendii e pianori appaiono improvvisi, quasi incastonati, minuscoli e pittoreschi grumi di case gotiche.
Herr Pruscha è un buon conversatore, e quando dico che sono italiano e che parlo un pò di francese e tedesco, è contento; gli dico della mia ricerca, di Heinz Huren e della sua scomparsa.
Con un miscuglio di Italiano, Tedesco e Francese riusciamo a comprenderci e racconta: " io non ho conosciuto lo Svizzero, ma sapevo che viveva vicino a Triberg dove dipingeva quadri ( in gran parte erano Mandala) che poi cercava
di vendere al nord, a Stoccarda o Strasburgo."
Allo scoppio della guerra, molti Ebrei tedeschi, almeno quelli più attenti e consapevoli della vera natura del Nazismo, e già oggetto di persecuzioni e vessazioni, capirono che la Germania non era più il luogo dei loro affetti e del focolare domestico, e quindi pensarono di fuggire all'estero e mettersi al sicuro con le famiglie. I più agiati e previdenti, già dal 1933 avevano scelto la via di un esilio doloroso. Pertanto si creò un flusso di ebrei verso il Baden e la Foresta Nera per raggiungere la frontiera Svizzera e rifugiarsi in quel Paese.
Con i mezzi più avventurosi molti di essi riuscirono nell'intento, altri furono catturati, altri uccisi dalle guardie di frontiera.
Una rete capillare non solo di ebrei, ma anche di tedeschi loro simpatizzanti, provvide all'organizzazione delle fughe e fece fronte ai pericoli derivanti da delazioni e tradimenti.
Herr Pruscha fa intendere di essere stato tra gli attivisti di quella rete e afferma che "lo Svizzero" Heinz Huren era infaticabile nel lavoro di guida agli ebrei che, provenienti dal nord, erano diretti al confine.
Ma gli sviluppi della guerra complicarono maledettamente le operazioni di espatrio dei fuggiaschi; infatti le armate di Hitler con la loro fulminea avanzata avevano travolto la resistenza francese e occupata la Francia, comprese l'Alsazia e la Lorena, regioni da sempre rivendicate dalla Germania. Perciò il confine del Reno divenne insicuro, quasi impraticabile, e pertanto le sole vie di fuga furono quelle di Sciaffusa, Costanza, e la "Porta" di Basilea.
Herr Pruscha è un torrente in piena e parla senza reticenze; racconta che in quel periodo nacque un florido mercato con i beni sottratti agli ebrei da ladri e profittatori: si trattava di oro, argenterie e pietre preziose, più raramente di denaro. Accadeva inoltre che personaggi ambigui, carpita la buona fede degli Ebrei, si prestassero a trasferire in Banche Elvetiche Titoli e capitali esigibili, e poi facessero perdere le loro tracce. Ma le spoliazioni più odiose furono quelle messe in atto con la complicità e le minacce della Gestapo e delle SS, Corpi spietati nel braccare e catturare gli ebrei che, costretti alla fuga, fuggivano abbandonando i loro averi dopo avere subito espropri forzosi e iniqui.
Il Pruscha ha un gesto di sconforto a questi ricordi, tace e fissa i pascoli verdissimi che scendono a valle.
Ci riposiamo sul pendio dell'alpeggio, l'anziano fruga nello zaino e mi porge un pezzo del suo formaggio e pane nero, io offro vino del Reno.
Il vecchio afferma che lo svizzero, nella primavera del '45 si aggirava ancora nei pressi di Freiburg dove riprese la sua vita solitaria dipingendo e vagando nei boschi.
Nella Germania ormai distrutta, la guerra giungeva all'epilogo prevedibile: gli ultimi nazisti irriducibili difendevano il bunker di Hitler a Berlino, ma il dittatore infine si uccide, Eva Braun ne condivide il destino e l'intera famiglia Goebbels si procura la morte con il veleno. Pruscha afferma che degli ultimi fuochi di guerra, nella Foresta Nera giungeva solo un'eco lontana, e tuttavia anche il Baden dovette subire le conseguenze della sconfitta: distruzioni e penuria di cibo, ovvero la fame più nera, l'estrema povertà, il disorientamento, e l'incertezza del futuro. Ma il vecchio afferma che il Baden, o meglio, la Foresta Nera si rivelò "un'Arca" di sopravvivenza per molti civili e militari allo sbando, facendo sì, tra l'altro, che molti ebrei si salvassero dallo sterminio.
Abbiamo parlato a lungo di tutto, poi il sole si è nascosto, l'aria si è fatta pungente e abbiamo deciso di scendere a valle diretti a Freiburg, con l'accordo di rivederci l'indomani nel mio albergo in Rathausgasse. Infatti nel frattempo avevo lasciato l'alberghetto di Triberg per un albergo più confortevole in pieno centro a Freiburg; ero stremato e desideravo riposare godendo anche dell'atmosfera leggera, quasi festosa che si respira nella città grazie alle migliaia di giovani che vi frequentano l'Università. All'indomani, Pruscha mi avrebbe guidato in alcuni Uffici Pubblici per cercare tracce dello "Svizzero", ma ogni ricerca fu vana perché Heinz Huren era un uomo inesistente sia per il Polizeiamt, sia per ogni altro ufficio, e lo stesso intervento del Governo
Elvetico non aveva approdato a risultati migliori.
L'ultima segnalazione riguardava un pescatore attempato che con altri stava sulla riva del Titisee: parlavano e ridevano, lo sguardo fisso all'orizzonte, ma non era Heinz. I più pensarono che fosse rientrato in Svizzera, altri erano convinti che fosse caduto vittima di un rastrellamento delle SS nella zona
più prossima alla Confederazione, dove gli ultimi ebrei fuggiaschi cercavano la libertà. Correva voce che, sempre nei pressi del confine, vi fossero state esecuzioni sommarie di ebrei a opera di militari delle SS che nella fuga gettavano le divise alle ortiche.
Silenziosi e delusi io e il Pruscha ritornammo nella Marktplatz dove i venditori già smantellavano i banchi di vendita e riponevano il tutto sui mezzi di trasporto.
Sotto i portici prospicienti la piazza, in una piccola trattoria, mangiammo gulasch con crauti e patate; ci tenevano compagnia le marcette e i cori popolari diffusi dalla radio, ma tra noi poche parole perché eravamo stanchi e pensavamo alla sorte toccata a Huren, al paradosso che l'unico svizzero coinvolto nell'immane conflitto fosse stato tanto sfortunato.
Pruscha infine diede sfogo al malessere che covava da tempo ed esplose la sua indignazione con invettive disperate e feroci verso la sciagurata avventura in cui Hitler e il Nazismo avevano precipitato l'Europa e il mondo. Per questo, egli disse, Odino, Thor e tutti gli Dei del Walhalla ci hanno abbandonati e le Valchirie sono venute sui campi di battaglia non per raccogliere gli Eroi caduti, ma per seppellire milioni di morti senza nome e senza gloria.
L'antico spirito guerriero degli Alemanni aveva prevalso ancora una volta nella storia tedesca e spinto il popolo tutto a sfidare il mondo in un delirio di conquista e onnipotenza.
Ma la Germania, incendiata l'Europa, a sua volta divenne terra violentata e umiliata dalle sventure portate dai Cavalieri dell'Apocalisse che ne calpestarono il suolo e vi cavalcarono facendo terra bruciata al loro passaggio.
Pruscha afferma con sicurezza che i suoi connazionali, lontani dai centri direzionali politici e militari del Reich, erano perlopiù all'oscuro di quanto accadeva in Germania e nell'Europa occupata.
Pertanto, di piani di sterminio per Ebrei, Zingari, politici e altre minoranze si sussurrava, si sospettava, ma nulla di più: d'altra parte il sistema era congegnato in modo da risultare impermeabile a intrusioni esterne e faceva affidamento sulla fedeltà assoluta di Corpi Scelti come Gestapo ed SS che gareggiavano in ferocia, e sulla ferrea disciplina dei prigionieri ridotti in schiavitù e quindi obbligati ai lavori più immondi e criminosi.
In quegli anni nessuno tra la gente comune conosceva il significato del termine "Ausmerzen", (Sradicare) né che alla Conferenza di Wannsee del '42 si pianificasse la "Endlosung der Juden frage"( la soluzione finale del problema del popolo ebraico). Solamente nel dopoguerra, infatti, con il processo di Norimberga, sarebbero venuti alla luce i dettagli del genocidio pianificato e perpetrato con metodo scientifico nei Konzentrationslager. D'altra parte visitando uno dei tanti Campi allestiti dal Nazismo ( ho visitato quello di Dachau), si può comprendere l'entità della tragedia: una catena efficiente e ben oliata per lo "smaltimento" di 12 milioni di uomini, 6 dei quali Ebrei. Ora il vecchio tace e sorseggia il suo vino, lo osservo a lungo mentre armeggia con il bicchiere e ha l'aria triste di chi è piegato, quasi fosse gravato dal peso dei misfatti dell'umanità intera. Herr Pruscha, gli dissi, lei è un uomo buono e saggio. Mi guardò con gli occhi chiari e lucidi di commozione, poi in un lungo sospiro disse che ogni uomo è saggio quando sceglie di vivere eticamente. Non lo rividi, né seppi altro di lui.
Decisi infine di lasciare la Bresgovia e ritornare a Zurigo dove rividi la signorina Schaufelberger la quale mi disse che pochi anni addietro, alle prime luci di una fredda alba ottobrina, aveva udito bussare ripetutamente alla sua porta di Gasometerstrasse; indossata la vestaglia, e socchiusa la porta, dal buio del pianerottolo le apparve un vecchio canuto, male in arnese, il viso emaciato e gli occhi smarriti.
Lei stentò a riconoscere in quelle sembianze il volto di Heinz Huren. Lo abbracciò e, senza indugio, né parole, lo introdusse al tepore della cucina. Heinz non parlò per molto tempo; passavano i giorni ed egli in silenzio osservava i movimenti della donna; si era ripulito e sbarbato assumendo così un aspetto più civile, ma mostrava ancora l'estrema magrezza che gli conferiva
un'aria inquietante, lo sguardo nel vuoto, quasi rapito da una visione ineffabile agli altri inaccessibile. Dietlinde aveva rinunciato a fargli domande perchè non avrebbe ottenuto risposte e Heinz infatti si rifugiava nel mutismo di una immobilità catatonica. Poi la donna colse nell'uomo piccoli segnali di nuova vitalità, e si precipitò ad acquistare tele, colori e pennelli. Dopo alcuni giorni vide Heinz impastare colori sulla tavolozza, e sulla tela candida prendeva forma un nuovo Mandala rosso e turchese, di un azzurro intenso di lapislazzuli su fondo di argento e oro zecchino, dai quali trasparivano i segni dell'iconografia nazista e dello sterminio degli ebrei.
Il tutto era delimitato da una croce celtica e dal candelabro ebraico, mentre il girone più esterno era una foresta di abeti scheletriti e senza luce dai quali emergevano figure spettrali di donne e bambini sofferenti.
Ma Heinz, segnato nello spirito e nel corpo dalle esperienze vissute, non riuscì a dimenticare o a superarne i traumi. Pertanto riprese i contatti con alcuni compagni d'avventura che rintracciò nella Foresta Nera e a Freiburg. Erano gli anni peggiori della "Guerra Fredda" nell'Europa divisa e schierata in minacciosi campi opposti, tutti paralizzati e condizionati dal cosiddetto Equilibrio del Terrore provocato dalla proliferazione degli armamenti nucleari. Heinz dunque con alcuni reduci delle imprese compiute nella Foresta Nera incontrò il Capitano Stoltz, conosciuto nel maggio del '45 a Freiburg dove
era distaccato per tenere i contatti con gli antinazisti del Baden e per occuparsi dei problemi logistici legati alla dislocazione delle truppe che occupavano la Germania sconfitta: i reduci chiedevano di potere collaborare ancora con gli americani, i quali valutarono positivamente questa richiesta e ne accolsero alcuni ( tra i quali figurava Heinz Huren ) nei ranghi del controspionaggio americano la cui base di addestramento ed operativa era a Monaco di Baviera. La germania sconfitta e suddivisa in zone d'influenza tra le potenze vincitrici, a loro volta già divise e che si fronteggiavano armate causa la guerra fredda, pullulava di agenti segreti e spie e in quel mondo di rischi e pericoli continui entrò Heinz che volle proseguire la sua guerra nell'anonimato, non più nella Foresta Nera ma in quella degli uomini.
Nella stanza vuota di una casa senza vita. Leone, Aurora, Ermanno, Cettina e Gelindo non sono più tra noi, così abbiamo pagato il nostro tributo alla grande e zelante spigolatrice.
Ma cosa sono i nostri poveri morti a fronte dei milioni di caduti nelle ricorrenti carneficine che gli uomini provocano per placare le passioni che li dominano?
Perché? Se riuscissimo a fornire una risposta razionale, o almeno plausibile, a questo interrogativo non vi sarebbe necessità di speculazioni filosofiche, né teologiche. Invece l'uomo è condannato a vagare nel labirinto della sua mente
alla ricerca di verità ritenute definitive, mentre invece sono il risultato di elaborazioni vecchie, ruminate all'infinito, tali da produrre una materia povera e informe, imperfetta come tutto ciò che viene dall'uomo che perciò, per una sorta di "coazione a ripetere", incorre sempre nei medesimi errori. Il mistero gli è precluso, ma egli è preso da vertigine quando, come Icaro, intravede il sole lontano, quasi a portata di mano ma, tradito dall'orgoglio, si perde.
Ma allora, perché? Forse dobbiamo essere umili ed essere paghi delle conoscenze di biologia, chimica e fisica? Questo è il perimetro nel quale possiamo pascolare, perché tutto il resto è "Terra Promessa", materia di fede per l'uomo che anela all'immortalità? Ma questa immortalità è uno specchietto per le allodole, un miraggio che confonde e disorienta l'uomo, il quale, reso più debole e perciò vulnerabile, si piega al disegno della natura, disegno che peraltro nulla ha da spartire con una divinità inconoscibile e verosimilmente in tutt'altre faccende affaccendata.
Una divinità che secondo alcuni si china a trastullarsi con l'uomo e le cose della terra e lo irretisce con le lusinghe di una nuova vita felice. In realtà siamo piccoli uomini in balìa della natura che ci domina , e che con l'amore e l'istinto sessuale, meraviglioso e ineffabile espediente, ci fa strumento potentissimo della sopravvivenza della specie. Questo il nostro compito nella catena biologica nella quale stoltamente crediamo di agire e invece "siamo agiti". E il calendario biologico dice anche della morte in agguato, spada di Damocle e pensiero molesto che ci segue senza tregua. E allora, intenti a dipanare, tra angustie e vane speranze, il garbuglio della vita, ci abbandoniamo all'abbraccio di religioni, ideologie e relative dottrine, mediate a noi da altri uomini fallibili che ne fanno Istituzioni sulle quali edificano complesse strutture gerarchiche di potere e che però perpetuano tra gli uomini i mali e i conflitti della società umana. E tuttavia queste costruzioni, benché imperfette, sono rifugi accoglienti per l'uomo terrorizzato da carsiche paure ancestrali. In verità potremmo dire con Tertulliano: "Credo quia absurdum", e io aggiungerei: "quia timeo", ma questa è una scelta che l'orgoglio e la fede nella ragione umana ci inibiscono.
Scivolo sul pavimento in posizione fetale, mi riparo dal freddo con la trapunta che crea una camera d'aria tiepida intorno al mio corpo e sono subito preda di Morfeo.
Il sonno è provvidenziale: ripara dalle ingiurie della memoria e placa i dolori delle ferite ancora aperte.
Al risveglio, il clamore della strada mi ricorda che io sono vivo, eppure in me alberga il dubbio: " Poiché vedo che tutti quanti siamo, non siamo nulla più che fantasmi o un'ombra leggera " ( Sofocle, Aiace)
E ancora : "Chi sa se quello che è chiamato morire è vivere oppure se vivere è morire" (Euripide).
Mi scuoto e allontano i pensieri tristi; ora avverto un formicolio che si irradia dai piedi alle gambe che via via perdono sensibilità, ma il disturbo non mi distrae dal pensiero fisso sul mio travagliato "redde rationem", bilancio che giunge quando ho già percorso un lungo tratto del mio cammino.
Allora la mente ritorna all'infanzia e alla giovinezza, e penso agli ideali traditi, o che non sono sopravvissuti alle prove della vita, all'idealismo tenace, ma fonte di frustrazioni, alle speranze deluse, agli impegni non mantenuti e all'amore idealizzato e sublimato che riempiva l'anima di pienezza e gioia e che poi con l'età matura si corrompeva.
Se non ho vissuto per essere felice e in pace con me stesso perché ho vissuto? Ho vissuto del tutto ignaro di me e del mondo? C'é dunque qualche cosa che salvo della mia vita? Sì, l'infanzia e la giovinezza, quando amavo la vita e la vita mi amava, o la tensione emotiva verso la vita e le sue bellezze e, sopra ogni cosa, il dono dei figli che forse ho deluso, ma che ho amato di un sentimento puro e totale. Quando tutto era pienezza e la gioia di vivere nutriva l'esistenza.
Antonio Ferrin
Sono alle prese con il groviglio di pensieri che il filo della memoria avvolge sempre più rendendolo inestricabile. Infine, dopo tanto lottare, sono finalmente placato, senza aspettative, in pace e accetto il mio destino, destino che in realtà ignoro e che non è nella mia disponibilità. Infatti, esaurito il nostro compito di zelanti esecutori di un ipotetico "disegno divino", non ci resta che tornare alla terra e disperderci, pulviscolo cosmico, nell'universo.
Sono ancora disteso sul pavimento, in attesa di non so che, ad arrovellare il cervello con idee futili, e recito come un mantra le stesse parole senza senso
mentre nel vulcano che è in me ribolle il magma, e monta e si gonfia, pronto a esplodere e dilagare sulla natura stremata e indifferente.
Sabato 19 Marzo 2011