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libreria di zurau
venerdì 24 agosto 2018
POLESINE
Da Porto Garibaldi, con la Romea sfiorarono l'Abbazia di Pomposa, Bosco Mesola e Valle Bertuzzi, poi per antichi terreni bonificati raggiunsero Goro e la Sacca omonima, e seguendo la strada d'argine di questo ramo del Po, ecco Gorino, dove il corso del fiume si frastaglia in rami minori che lasciano acque in lanche e mortizze, tra lingue di terra e dune sabbiose. La batana era tirata a secco sull'estrema lingua di terra, e Berto, aiutato da Giulia, la spinse in acqua: egli portava a spalla l'unico remo utilizzato per la voga alla veneziana, si staccò dalla riva e costeggiò la sacca fino al Faro di Goro.
Giulia, silenziosa, sedeva a prua con la mano nell'acqua verdastra che sciabordava nascondendo il fondo alla profondità di soli 60 cm: l'acqua ora era limacciosa, ora cupa di alghe e cespugli.
L'acqua salmastra, sorvolata da gabbiani felici, era increspata e tremolava per la brezza che dalla pineta svaniva sul mare.
La donna fissava lo sciabordio prodotto dalla sua mano: Berto le disse che la mano in acqua faceva da timone, ma lei godeva di mani o piedi immersi.
Giulia slacciò il pareo, mostrando il bikini turchese che esaltava le forme di splendida quarantenne; sembrava incurante della presenza di Berto che la osservava, ma senza darlo a vedere, che la sua bellezza lo stupiva ancora, e con piccoli tocchi del remo indirizzò la barca e penetrò nell'intrico di cannella palustre dirigendo a Canneviè, la vecchia stazione di pesca trasformata in oasi di riposo per amanti del paesaggio vallivo e dell'osservazione della fauna.
La batana procedeva lenta tra cannella, salicornia e giunchi: l'odore salmastro e di marcita divenne pungente, e al crepitio delle erbe si levavano in volo garzette, qualche airone, e immobile, più oltre,
era la visione rara di un Cavaliere d'Italia, ritto su una minuscola barena.
Elegantissimo e guardingo affondava il becco nell'acqua, e Berto lo indicò a Giulia che posò lo sguardo sull'uccello e sorrise, e allora l'uomo ricordò che il Cavaliere d'Italia, (al pari di altri animali)
corteggia la sua compagna con un rituale delicatissimo e romantico, comportamento esemplare per gli umani che spesso non usano gli stessi riguardi negli approcci amorosi.
Approdarono all'isolotto di Canneviè: in passato era stata una stazione di lavorieri addetti alla cattura e lavorazione delle anguille, e poi convertita in ristorante e albergo; l'orizzonte profondo, ormai sfumava in gradazioni di rosa che, da valli e lagune zittite, stingeva sul mare senza luce.
Nella nuova Canneviè non c'era traccia di lavorieri, ma era ancora isolata in una rete di barene erbose unite da passerelle rudimentali, a volte munite di pontili d'attracco, e l'insieme di questa fusione fra
terre e acque era suggestiva, quasi una tela finemente ricamata: le passerelle e il perimetro del locale erano segnate da torce anti zanzare che infestano da sempre queste lagune.
L'uomo e la donna cenarono: l'atmosfera nel locale era propizia alla rimozione di ogni timore e sopiva tensioni e crucci della vita quotidiana a Ferrara.
Avevano stabilito di dormire a Canneviè, e il mattino dopo fare a ritroso la vogata per Gorino.
Alcuni turisti provarono ad animare la serata, ma non c'era un istrione degno di questo nome, e allora le voci si affievolirono, e i pur generosi tentativi si ridussero a più miti pretese: un vecchio piano
verticale era sulla pedana e si offriva a suonatori avventizi e coraggiosi.
Uno dei presenti si avvicinò, timidamente e con circospezione, allo strumento, ma subito, uomini e
donne, lo spronarono battendo le mani; l'uomo, ormai a suo agio di fronte alla tastiera, cercò il La.
Il pianista, condiscendente e con un pizzico di sussiego, strimpellò vecchie canzoni e brani classici, nei quali alcuni si cullavano e cedevano alla nostalgia, mentre altri abbandonarono la sala diretti alle camere.
Anche Berto e Giulia dopo alcuni brani si alzarono e, rivolto un sorriso al pianista, si avvicinarono ai vetri, notando subito che le torce si stavano spegnendo, e la loro luce sempre più fioca allungava le ombre della notte.
I due erano sereni e si tenevano per mano: da quanto non accadeva? Forse da quando frequentavano i
Lidi nei lontani anni 60? Si erano invaghiti l'uno dell'altra nei giorni assolati di luglio, con i balli lenti e il rito giocoso della seduzione che poi finiva sempre fra le dune del litorale Acciaioli.
Adesso erano distesi sul letto, certamente stremati dall'intensa giornata, ma non dimentichi di quel passato, e non resistettero al desiderio: si scambiarono effusioni dolcissime e si rividero giovani, lei
nel pieno fulgore della giovinezza, i capelli biondo cenere, gli occhi grandi e stupiti, lui quando credeva ancora che tutto fosse senza fine: nutrivano fiducia nelle promesse di gioia e felicità.
Chiusero gli occhi che lei era abbarbicata a lui come rampicante o, come diceva Berto, un ragnetto.
Furono risvegliati al mattino dal clamore della natura e dal sole che entrava prepotente dai vetri; l'uomo scese dal letto e osservò Giulia che sembrava assopita, ma era solo civettuola e indolente, le
si avvicinò sfiorandole bocca e palpebre con le labbra.
Erano in sala per la colazione: dalle finestre spalancate irrompeva il chiasso dei gabbiani e l'aria di erbe e salsedine; l'uomo e la donna, ristorati dal sonno e dalla colazione, uscirono da Canneviè (Berto con il suo remo in spalla), e raggiunsero il pontile a riprendere la batana.
Il cielo era terso, la leggera brezza mattutina penetrava nelle strette vie d'acqua tra la vegetazione
verde oro che ondeggiava e frusciava; i due erano catturati dalla bellezza e serenità di una natura che
pare immobile, ma che invece brulica di vita, e dove le acque del grande Delta recano da lontano, senza fine, limo e sedimenti che fanno terra del mare.
Giunsero stanchi nel porticciolo di Gorino, ormeggiarono la barca e Berto assicurò il suo remo sul tetto della vettura, quindi decisero di pranzare alla Uspa, il locale più schietto, e forse l'ultimo, nella
lingua di terra, più a sud del Delta, che si distende nell'Adriatico.
Camminarono sulla nuova terra di polesine sperando di avvicinarsi al vecchio faro, ma il percorso
risultò impervio e infido; ritornarono sui loro passi e salirono in macchina per fare ritorno a Ferrara.
Nel viaggio verso Ferrara, Berto e Giulia furono di poche parole; era scemata la tensione positiva dell'aspettativa all'andata, nonché la lusinga delle ore trascorse insieme: erano oppressi da pensieri molesti legati alla realtà che non amavano.
Berto chiese a Giulia: a che ora abbiamo appuntamento con gli avvocati? E lei: domani alle undici.
A.Ferrin
modena, 27/08/2018
mercoledì 22 agosto 2018
IL MATRIMONIO DI LORNA
E' un film dei fratelli Dardenne, visto ieri sera sul Canale 23 che di solito trasmette documentari di storia e di scienza: ho visto altri film dei Dardenne, sempre interessanti, quasi film di Culto.
In questo è narrato l'ambiente dell'immigrazione clandestina in Belgio, e dei matrimoni combinati in
quella società tra immigrati regolari e irregolari.
La protagonista è l'albanese Arta Dobroshi che ha il ruolo di Lorna: è bravissima, di un'espressività
intensa e non meno bravi sono i suoi comprimari.
Anche Lorna cerca scorciatoie per ottenere la Cittadinanza, e così sposa un giovane belga già tossico e disperato, Claudy.
La donna è ormai preda di delinquenti i quali, dietro compenso, le propongono il matrimonio con un
immigrato russo, ma ciò è possibile solamente se interviene la morte del marito Claudy appena sposato, e la cosa è plausibile in quanto il marito rischia sempre più la morte per overdose.
Lorna e il marito vivono la loro unione tra le continue crisi di astinenza di lui, con le sue disperate richieste d'aiuto alla moglie, e lei vittima delle pressioni sempre più esplicite e minacciose della banda.
Lorna avverte, così crede, i sintomi di una incipiente gravidanza (si è concessa per pietà a Claudy nel
corso di una delle sue ultime crisi); in ospedale confermano la gravidanza e le chiedono se vuole abortire: in un primo tempo lei acconsente, ma subito dopo fugge dall'ospedale.
Quindi si apprende della morte di Claudy per overdose; la polizia, dati i precedenti, avvalla questa
versione, invece Lorna intuisce che suo marito è stato ucciso.
L'epilogo mostra la crisi profonda di Lorna che scorge un barlume di speranza nell'illusoria, o vera
gravidanza, riconosce in se la pietà per il marito ucciso, mentre i criminali capiscono che la donna è
ormai un testimone pericoloso, e pertanto decidono di sopprimerla.
Ma Lorna riesce a sfuggire ai carnefici, fugge e attraversa un bosco di betulle in cui trova ricovero
per la notte.
Durante la fuga tra gli alberi, stanca e trafelata, instaura un dialogo toccante con il feto che ha in grembo: "non ti preoccupare, siamo quasi arrivati", e una volta sdraiata sul pagliericcio, con la mano sul ventre: " ecco ora siamo al sicuro, riposiamo e vedrai che domani qualcuno ci aiuterà".
Il film non da certezza, io penso volutamente, circa la gravidanza di Lorna. perché vuole mostrare la
metamorfosi che avviene nella donna con la nascita in lei di nuovi sentimenti prima sconosciuti,
quali l'amore, la tenerezza e dolcezza della maternità, sentimenti scaturiti da una nuova maturità e sensibilità.
A.Ferrin
modena, 22/08/2018
sabato 11 agosto 2018
ANIMALE SOCIALE
L'uomo è un'animale sociale, e non è un'affermazione arbitraria o cervellotica; lo affermava oltre 2300 anni fa Aristotele, ben prima che la "cultura" sostenesse il primato e la superiorità dell'uomo nella natura, cioè prima che le religioni monoteiste creassero un Pantheon dominato dal genere umano, prima che l'uomo si spogliasse con presunzione dei suoi tratti animaleschi per deificarsi o farsi deificare.
L'Umanità così si è allontanata dalle sue radici, e la sua filosofia non viene a capo di nulla, rumina
all'infinito la stessa materia senza fornire risposte alle domande di sempre, domande sulle quali si arrovella e si agita come gli insetti di un termitaio nel loro compito vitale ma di orizzonte limitato.
Quindi sono un essere umano parte del regno animale più evoluto, forse, nella scala degli esseri viventi, ma con gli stessi bisogni di vivere con gli altri nella natura per compiere il destino comune.
L'umiltà non è fra le nostre virtù: il nostro sguardo è rivolto al futuro, pur sospettando che questo futuro finisce in polvere, ma non dobbiamo pensarci troppo, pena la paralisi delle energie creative.
Siamo spinti da un'istintiva "coazione a ripetere"che ci fa perpetuare gesti e modelli di un passato remoto.
Invidio i credenti, che siano essi cristiani, musulmani e di ogni altro credo, monoteista o politeista. Sono tutti più felici (o credono di esserlo) di chi non ha speranza.
A.Ferrin
modena, 11/08/2018
venerdì 3 agosto 2018
LA POLVERIERA
L'uomo scendeva a piccoli passi dall'alpeggio percorrendo il tratturo disseminato di bulacche, ricordi dell'ultima transumanza. Il campo era limitato da noccioleti e cespugli: alla loro ombra vacche
e vitelli godevano del venticello che dal Boscone precipita nella valle del Rio.
Il Pielungo, questo il suo nome, raggiunse infine la malga dove Irene stantuffava con la zangola, e Tugnin, intento alla caldaia, riordinava sulla panca le fuscelle per la ricotta nuova .
Si salutarono con i suoni gutturali dei montanari del Versurone, che hanno modi spicci e schietti, e
sedettero al tavolaccio per il rito propiziatorio con il gotto di vino rosso.
L'Irene non lasciò la zangola: era bionda e ancora bella, i molti capelli raccolti sulla nuca, un grembiule blu fissato in vita, e la pettorina allacciata al collo che faceva intravedere una camiciola azzurrina.
Non era interessata ai discorsi degli uomini perché, diceva lei, sono sempre gli stessi, pieni di fole,
millanterie, e interrotti spesso da grugniti o moccoli.
Lei aveva accettato di sposare Tugnin non per dovere: era stato così perseverante con le sue visite, la invitava al ballo quando si vedevano in balera, allora sembrava anche timido, e questo le piaceva;
ma lei aveva sognato un'altro mondo, un bel mondo scaturito forse da fotoromanzi e da leggende di paese, ma alla fine aveva preso la strada dei più, quella segnata dalla vita, dal borgo e dalla storia di uomini e donne che devono abbandonare i sogni e accettare la realtà.
Ma a pensarci bene, l'Irene non aveva fatto grandi voli di fantasia, il suo futuro era fatto di cose semplici, e la felicità una parola così grande che, quasi per pudore, non era pronunciata, e pertanto si
era abbandonata al flusso della vita come acqua placata che procede tra sponde sicure.
Pielungo aveva già lasciata la malga che il sole declinava oltre il Cimone, mentre Tugnin, paziente,
incitava le vacche nello stabbio e queste, mansuete, una a una, entravano nel recinto; sedette sul
bordo dell'abbeveratoio, scrutò il pendio che digrada nella valle e notò che l'erba medica era matura per lo sfalcio e la fienagione.
Rimirò l'altro versante della valle dove il bosco si ombreggiava sempre più e mentre contemplava stupito, si rivide sulle colline del basso Friuli, nei primi anni'60, proprio nel paesaggio ameno di Fanna.
La lunga colonna militare, con armamenti e vettovaglie, aveva raggiunto da Treviso il Fiume Tagliamento dove, tra Fanna, Maniago e Spilimbergo, il Reggimento occupò una vasta radura in cui si fissarono le tende e i servizi necessari alla truppa: cucine da campo, comando e stazione radio, la fureria con il deposito viveri, la santabarbara, le tende più ampie con brandine da campo, docce rudimentali ma funzionali, e le latrine alla turca scavate nella terra del sottobosco.
Erano ricordi che gli appartenevano, belli perché di gioventù, dove anche disagi e fatiche sapevano d'avventura, ma si era in piena "guerra fredda"e, nonostante oltre la metà dell' Esercito fosse schierato a ridosso della vicina frontiera che allora separava l'Italia dal Patto di Varsavia, il grosso della truppa
non avvertiva il clima d'allarme che filtrava da cronache giornalistiche, o da mezze frasi sfuggite a Graduati e Ufficiali.
I giorni trascorrevano in addestramento, nelle opere di migliorie al campo e osservanza delle regole di vita comune; non mancavano lunghe ore di ozio nelle ore più afose, e in ogni caso la disciplina di caserma era così poco ferrea che i coscritti vivevano tutto con leggerezza, quasi fossero in colonia o
in un campo di boy scout: anche i pasti delle cucine da campo, somministrati nelle gavette, erano più appetitosi che in caserma, anche se addizionati (come si sospettava) del solito bromuro.
E di sera, finalmente, tutti in libera uscita per raggiungere Fanna e la trattoria più vicina!
Questo esercizio di memoria riportò alla mente di Tugnin le guardie armate cui era comandato di notte a una delle molte polveriere e depositi d'armi di cui era disseminato il Friuli, terra trasformata in servitù militare: il turno di guardia si svolgeva in tenuta da combattimento, con anfibi, elmetto e
giberne, armati di MAB con colpo in canna, e rispettando procedure di sicurezza molto rigide.
Ripensò quindi alle ore interminabili in garitta a scrutare un tratto di perimetro della polveriera, vigile
a rumori e fruscii, attento a non cadere in sonno: la ronda armata con l'ufficiale di picchetto transitava ogni ora per controllare l'efficienza del servizio.
Solo in seguito, ritornato alla vita civile, Tugnin aveva letto "Il deserto dei Tartari" di Buzzati, e vi aveva riconosciuti come propri, i sentimenti del Ten. Drogo: il senso di solitudine, l'attesa senza fine, lo spaesamento nel deserto fisico e dell'anima.
In quel periodo accadde l'incidente, ovvero il fattaccio.
Un Ufficiale, al comando di una ronda armata, avvicinatosi nel buio al posto di guardia, non obbedì all'alt (ripetuto tre volte) del soldato, né rispose alla sua richiesta della parola d'ordine, per cui quello sparò colpendolo a morte.
L'Ufficiale voleva mettere alla prova la professionalità del soldato? Nulla si seppe al riguardo, ma il soldato dimostrò comunque, e suo malgrado, di essere ben addestrato; poi ci fu chi ipotizzò che si fosse trattato di un perfetto e premeditato suicidio .
In ogni caso, quell'Ufficiale fu il solo caduto sul fronte orientale d'Italia, vittima però di "fuoco amico", nella guerra temuta e mai combattuta dai soldati di Leva nel '64.
A.Ferrin
modena, 03/08/2018
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