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libreria di zurau

venerdì 3 agosto 2018

LA POLVERIERA



L'uomo scendeva a piccoli passi dall'alpeggio percorrendo il tratturo disseminato di bulacche, ricordi dell'ultima transumanza. Il campo era limitato da noccioleti e cespugli: alla loro ombra vacche
e vitelli godevano del venticello che dal Boscone precipita nella valle del Rio.
Il Pielungo, questo il suo nome, raggiunse infine la malga dove Irene stantuffava con la zangola, e Tugnin, intento alla caldaia, riordinava sulla panca le fuscelle per la ricotta nuova .
Si salutarono con i suoni gutturali dei montanari del Versurone, che hanno modi spicci e schietti, e
sedettero al tavolaccio per il rito propiziatorio con il gotto di vino rosso.
L'Irene non lasciò la zangola: era bionda e ancora bella, i molti capelli raccolti sulla nuca, un grembiule blu fissato in vita, e la pettorina allacciata al collo che faceva intravedere una camiciola azzurrina.
Non era interessata ai discorsi degli uomini perché, diceva lei, sono sempre gli stessi, pieni di  fole,
millanterie, e interrotti spesso da grugniti o moccoli.
Lei aveva accettato di sposare Tugnin non per dovere: era stato così perseverante con le sue visite, la invitava al ballo quando si vedevano in balera, allora sembrava anche timido, e questo le piaceva;
ma lei aveva sognato un'altro mondo, un bel mondo scaturito forse da fotoromanzi e da leggende di paese, ma alla fine aveva preso la strada dei più, quella segnata dalla vita, dal borgo e dalla storia di uomini e donne che devono abbandonare i sogni e accettare la realtà.
Ma a pensarci bene, l'Irene non aveva fatto grandi voli di fantasia, il suo futuro era fatto di cose semplici, e la felicità una parola così grande che, quasi per pudore, non era pronunciata, e pertanto si
era abbandonata al flusso della vita come acqua placata che procede tra sponde sicure.
Pielungo aveva già lasciata la malga che il sole declinava oltre il Cimone, mentre Tugnin, paziente,
incitava le vacche nello stabbio e queste, mansuete, una a una, entravano nel recinto; sedette sul
bordo dell'abbeveratoio, scrutò il pendio che digrada nella valle e notò che l'erba medica era matura per  lo sfalcio e la fienagione.
Rimirò l'altro versante della valle dove il bosco si ombreggiava sempre più e mentre contemplava stupito, si rivide sulle colline del basso Friuli, nei primi anni'60, proprio nel paesaggio ameno di Fanna.
La lunga colonna militare, con armamenti e vettovaglie, aveva raggiunto da Treviso il Fiume Tagliamento dove, tra Fanna, Maniago e Spilimbergo, il Reggimento occupò una vasta radura in cui si fissarono le tende e i servizi necessari alla truppa: cucine da campo, comando e stazione radio, la fureria con il deposito viveri, la santabarbara, le tende più ampie con brandine da campo, docce rudimentali ma funzionali, e le latrine alla turca scavate nella terra del sottobosco.
Erano ricordi che gli appartenevano, belli perché di gioventù, dove anche disagi e fatiche sapevano d'avventura, ma si era in piena "guerra fredda"e, nonostante oltre la metà dell' Esercito fosse schierato a ridosso della vicina frontiera che allora separava l'Italia dal Patto di Varsavia, il grosso della truppa
non avvertiva il clima d'allarme che filtrava da cronache giornalistiche, o da mezze frasi sfuggite a Graduati e Ufficiali.
I giorni trascorrevano in addestramento, nelle opere di migliorie al campo e osservanza delle regole di vita comune; non mancavano lunghe ore di ozio nelle ore più afose, e in ogni caso la  disciplina di caserma era così poco ferrea che i coscritti vivevano tutto con leggerezza, quasi fossero in colonia o
in un campo di boy scout: anche i pasti delle cucine da campo, somministrati nelle gavette, erano più appetitosi che in caserma, anche se addizionati (come si sospettava) del solito bromuro.
E di sera, finalmente, tutti in libera uscita per raggiungere Fanna e la trattoria più vicina!
Questo esercizio di memoria riportò alla mente di Tugnin le guardie armate cui era comandato di notte a una delle molte polveriere e depositi d'armi di cui era disseminato il Friuli, terra trasformata in servitù militare: il turno di guardia si svolgeva in tenuta da combattimento, con anfibi, elmetto e
giberne, armati di MAB con colpo in canna, e rispettando procedure di sicurezza molto rigide.
Ripensò quindi alle ore interminabili in garitta a scrutare un tratto di perimetro della polveriera, vigile
a rumori e fruscii, attento a non cadere in sonno: la ronda armata con l'ufficiale di picchetto transitava ogni ora per controllare l'efficienza del servizio.
Solo in seguito, ritornato alla vita civile, Tugnin aveva letto "Il deserto dei Tartari" di Buzzati, e vi aveva riconosciuti come propri, i sentimenti del Ten. Drogo: il senso di solitudine, l'attesa senza fine, lo spaesamento nel deserto fisico e dell'anima.
In quel periodo accadde l'incidente, ovvero il fattaccio.
Un Ufficiale, al comando di una ronda armata, avvicinatosi nel buio al posto di guardia, non obbedì all'alt (ripetuto tre volte) del soldato, né rispose alla sua richiesta della parola d'ordine, per cui quello sparò colpendolo a morte.
L'Ufficiale voleva mettere alla prova la professionalità del soldato? Nulla si seppe al riguardo, ma il soldato dimostrò comunque, e suo malgrado, di essere ben addestrato; poi ci fu chi ipotizzò che si  fosse trattato di un perfetto e premeditato suicidio .
In ogni caso, quell'Ufficiale fu il solo caduto sul fronte orientale d'Italia, vittima però di "fuoco amico", nella guerra temuta e mai combattuta dai soldati di Leva nel '64.
A.Ferrin
modena, 03/08/2018

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