SCRIBERE

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libreria di zurau

sabato 28 ottobre 2017

OTTOBRE

                                                                       OTTOBRE
                                                  I dieci giorni che sconvolsero il mondo


Mi riferisco ovviamente a Ottobre del '17: ho rivisto il film al Truffaut, film muto, colonna
sonora dal vivo con pianoforte e chitarra; Eizenstein ha girato la pellicola nel '28 ispirandosi al
libro scritto dal giornalista americano John Reed, testimone dei fatti che portarono alla caduta
dell'Impero zarista e all'avvento del comunismo.
Il film, commissionato dal Partito Comunista sovietico per commemorare il decennale della rivolta,
ha un carattere apologetico e ciò è comprensibile: i fatti erano di un'eccezionalità e importanza
assoluta paragonabile in grandezza alla rivoluzione francese, e infatti Eizenstein riesce nell'impresa
di restituire l'atmosfera, la tensione emotiva, gli ideali che motivavano il popolo sceso nelle strade.
E' vero che il regista ha riportato sul set di ripresa masse di volontari che si sono prestati a replicare fatti accaduti dieci anni prima, ma lo ha fatto con un realismo, un pathos coinvolgente e un'incisività
ancora commovente. Si rivede l'incrociatore Aurora alla fonda davanti al Palazzo d'Inverno a San Pietroburgo, le masse che invadono i Palazzi del potere e vi bivaccano, o le masse protagoniste di scene in cui freneticamente percorrono le grandi vie della Capitale e i primi piani di uomini e donne, con i volti scolpiti dall'eccitazione e dalla tensione, volti che trasmettono il dramma di un popolo felice e consapevole di vivere una pagina di storia irripetibile: infatti quelle vicende scaturirono da un crogiolo sociale e ideologico che produsse ideali e speranze di una società più libera e giusta, e in cui l'utopia e la realizzazione di una società comunista sembrò essere a portata di mano.
Come tutte le rivoluzioni, quella sovietica rimase incompiuta o tradita, e tuttavia, fra errori ed eccessi, mostrò la potenza delle idee come motore del cambiamento
Eizenstein ha diretto anche "La corazzata Potemkin", il film definito da Fantozzi una "cagata pazzesca", accettabile in quanto battuta di un film comico, ma in verità i due film sono di valore
assoluto, vere opere d'arte.
A. Ferrin
modena, 26/10/2017





lunedì 23 ottobre 2017

IL PALAZZO DEL VICERE'

                                                           IL PALAZZO DEL VICERE'

E' un film inglese e narra la fine del dominio inglese sull'India, e quindi i mesi di transizione guidati
dall'ultimo Viceré inglese Lord Mountbatten. Sotto traccia c'è la storia sentimentale fra una ragazza di
etnia indu e un ragazzo di etnia musulmana, e in primo piano la separazione traumatica dei due popoli alla partenza degli Inglesi.
La narrazione storica è sommaria ma rende l'immagine di un Paese che si affaccia all'indipendenza
lacerato tra violenze, sofferenze e migrazioni forzate; il sogno di molti Indù, Sikh e Musulmani era di
conservare l'integrità indiana in uno Stato multietnico e inter religioso, ma estremisti di ogni fede e le
interferenze delle grandi potenze fecero sì che anche gli sforzi di Gandhi furono vani, e così i Grandi (leggi Unione Sovietica e U.S.A) decisero per tutti: nacquero India e Pakistan, comprendente la regione del Bangladesh che, a sua volta, negli anni avrebbe scelto l'indipendenza dal Pakistan.
Il tutto passa sopra la testa del Viceré e di sua moglie idealisti ma forse un poco ingenui che fungono da esecutori di disegni altrui.
Bello il film nel complesso: a tratti, ambientazione sfarzosa, musica e scene, evocano Bollywood, ma il film è inglese, misurato e discreto nella recitazione.
Fra gli attori preferisco Gillian Anderson, moglie del Viceré e il Gandhi sdentato ma credibile.

A.Ferrin
modena 23/10/2017

domenica 22 ottobre 2017

Fango e cenere, che hai da gloriarti?


         
                                               "Fango e cenere, che hai da gloriarti?"                                             
                                                                         (Saggi)

Dai testi filosofici e sacri più antichi riecheggia sempre il concetto che vuole rammentare all'uomo la sua natura di animale, di essere parte degli esseri viventi, e non il dominus, e pertanto sono ingiustificate la sua superbia, l'arroganza e il delirio di onnipotenza che vuole esercitare sulla natura.
D'altra parte basta osservare composizione della materia, fisica, chimica e i fenomeni relativi,
per comprendere che tutto è immerso in un infinito calderone, che noi siamo irrilevanti e semplici
accidenti fortuiti di processi che sfuggono alla nostra percezione e comprensione, ed è sufficiente esaminare il nostro organismo e le funzioni di ogni essere vivente del mondo animale e vegetale,
nonché la genesi della materia, di terra e universo intero, conosciuto e sconosciuto, per constatare che alla base di tutto vi sono meccanismi comuni che si ripetono invariati e all'infinito. 
Ne consegue che l'intero universo, con le sue incalcolabili galassie, può essere assimilato a un immenso organismo che ingurgita, rigurgita, trasforma e sublima, crea, ricrea e moltiplica elementi e materia all'infinito.
Solo grazie allo sviluppo eccezionale del nostro cervello, noi uomini abbiamo potuto cadere preda
dell'orgoglio e ritenerci simili a Dio ( qualsiasi cosa rappresenti questa entità per tutti noi).
La stessa evoluzione del pensiero ha condotto dalla scatologia alla escatologia; ricordo molto bene
la mia prima lezione di chimica in cui il prof. ci spiegò cos'è la chimica, esemplificando così lo schema del processo chimico: un grande recipiente contenente materie prime(carburanti) con additivi e catalizzatori, calore, vapore, distillazione, cristallizzazione, produzione di energia e scorie da
eliminare o riutilizzare.; in altri termini, tutto ciò che vive si può assimilare al "tubo digerente.
Paradossalmente tutto, dagli organismi più semplici ai più complessi, e così anche l'universo sono
soggetti a questi meccanismi che, con sgomento, possiamo definire anche banali; ma accade anche
che questa "banale" verità sia spesso omessa o rimossa.
Come spiegare altrimenti che i termini legati alle funzioni fisiologiche (scatologiche) degli umani e gli organi sessuali, le così dette "vergogne", deputati alla riproduzione, siano relegati fra le parole interdette, parole che non è opportuno pronunciare, se non utilizzando eufemismi.
A mio parere, ciò è dovuto alla "cultura", alle sovrastrutture e stratificazioni create nel processo evolutivo umano, cultura mediante la quale gli uomini hanno inteso e vogliono nobilitare le proprie origini, come fanno quelli che, emancipati e arricchiti, si vergognano dei propri natali e invano cercano di cambiare o cancellarne il retaggio.
A.Ferrin
modena,21/10/2017

giovedì 19 ottobre 2017

LA SPOSA INFEDELE

 La sposa infedele
 (poesia di Federico Garcia Lorca)

E io la portai al fiume
credendo che fosse ragazza,
e invece aveva marito.

Fu nella notte di San Giacomo
e quasi per impegno
Si spensero i lampioni
e si accesero i grilli.
Agli ultimi angoli
toccai i suoi seni addormentati,
e mi si aprirono a un tratto
come mazzi di giacinti.
L'amido della sua gonna
mi frusciava nell'orecchio,
come una pezza di seta
lacerata da mille coltelli.
Senza luce d'argento sulle chiome
gli alberi sono cresciuti
e un orizzonte di cani
latra lontano dal fiume.

Passati i rovi di more,
i giunchi e i biancospini,
sotto il suo cespuglio di capelli
ho fatto una buca nella fanghiglia.
Io mi sono tolto la cravatta.
Lei il vestito
Io il cinturone e la pistola
Lei i suoi quattro corpetti.
Né i nardi né le conchiglie
hanno pelle così fine,
né i cristalli alla luna
risplendono di tanta luce
Le sue cosce mi sfuggivano
come pesci sorpresi,
metà pieni di fuoco
metà pieni di freddo.
Quella notte ho percorso
il migliore dei cammini,
in sella a una puledra di madreperla
senza briglie e senza staffe.
Non voglio dire, da uomo,
le cose che lei mi disse.
La luce della ragione
mi fa essere molto discreto.
Sporca di baci e di sabbia
me la portai via dal fiume.
Nell'aria battevano tra loro
le spade degli iris.

Mi sono comportato da quello che sono.
Da vero gitano.
Le ho regalato un cesto grande
di raso paglierino,
e non mi sono innamorato
perché, avendo marito
mi disse che era ragazza
mentre la portavo al fiume.

( da Romancero gitano)
         1935/36                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

mercoledì 18 ottobre 2017

ALDINA

                                                                          ALDINA


L'Aldina è una vecchia Trattoria in via Albinelli a Modena, fronteggia l'ingresso dell' omonimo mercato coperto: è posta al primo piano alla sommità di una scala ripida, inaccessibile ai portatori di Handicap, o "diversamente abili" come ora sono definiti.
Spesso, quando attraverso il quartiere del mercato, noto l'insegna della trattoria che richiama alla memoria un'altra Aldina, l'Aldina della mia fanciullezza.
Era la mamma di Maurizio, un compagno di giochi e abitavamo con le nostre famiglie a Ferrara nel quartiere dell'Arginone, attraversato e limitato dal Canal Bianco da un lato, da campi coltivati e dai
binari della Bologna Ferrara negli altri, e il tutto creava il Borgo di periferia con cortili e strade bianche, divenuto il mondo di noi bambini.
L'Aldina era la tipica donna emiliana, la rezdora, mamma di Maurizio, ma anche di tutti noi suoi compagni di gioco: era paziente e accogliente, sempre sorridente; impegnata con Checco suo marito nella conduzione del forno dove panificavano, nella salumeria e drogheria, nonché nell'allevamento
di polli e conigli, infine tenevano un piccolo allevamento di maiali per ricavarne i salumi.
Insomma era una piccola azienda integrata, si direbbe ora a ciclo completo, un piccolo precursore
dei futuri supermercati.
Ma ora, tralasciando i ricordi, si entra nella sala da pranzo e ci si trova subito immersi in un'atmosfera familiare, quasi un ritorno al passato, fra aromi e profumi d'altri tempi, di piatti spesso soppiantati dalle rivisitazioni culinarie di sedicenti grandi chef che si ispirano a cucine esotiche e a mille altre
definizioni di cucine sperimentali legate alle mode del momento.
Qui invece è un ritorno alle origini, a una cucina nella quale domina la peculiarità del territorio, le sue
tradizioni e la cultura di cui è permeato, e qui il profumo diffuso di ragù emiliano mi riporta in grandi
case di contadini, famiglie patriarcali che alla domenica si ritrovavano unite attorno al grande tavolo
sul quale, da capaci recipienti di terracotta o ceramica fumavano "montagne di tagliatelle gialle".
L'ambiente è informale, con tavoli e sedie semplici, tovaglie e tovaglioli bianchi in un insieme componibile secondo il numero degli avventori che vi affluiscono a frotte e, chissà perché, nella pausa di mezzogiorno.
L'oste è al banco di mescita da dove sovrintende al servizio, attento a dirottare i clienti solitari ai tavoli più piccoli, dove condividono lo spazio con altri commensali facendo di necessità virtù e, per incanto, questi sconosciuti conversano, parlano del proprio lavoro, dei piccoli fatti e aneddoti che  hanno vissuto nel loro girovagare per strade affollate dal traffico convulso e fragoroso.
Ma infine ci si rilassa anche nel vociare confuso, fra il calpestio delle cameriere che come funamboli si destreggiano tra i tavoli, cameriere molto efficienti e anche di bell'aspetto, il che non guasta, e con grazia ti propongono lasagne o tagliatelle, tortellini o tortelloni (rigorosamente di loro produzione), il
bollito misto e lo stinco di maiale, con la parmigiana e la caponata, il tutto bagnato con un bicchiere di grasparossa o sangiovese.
In fondo, donne o uomini, abbiamo poche pretese: un poco di pace, il contatto umano con i nostri simili e un cibo possibilmente ancora genuino.

A. Ferrin
modena,18/10/2017


lunedì 9 ottobre 2017

AMMORE & MALAVITA


                                                            AMMORE&MALAVITA



Non sono un grande estimatore dei film musicali, mi annoio anche con le Opere liriche, e pertanto
ricordo solo pochi musical: West Side Story e Jesus Christ Superstar.
Ciò spiega perché mi sono recato con una certa perplessità (ma a torto) nel cinema Astra per assistere al nuovo film dei Fratelli Manetti: Ammore e Malavita, film molto bello per la musica e i testi in cui
tutto si amalgama alla perfezione nell'incomparabile panorama della Napoli popolare, della "Spaccanapoli" dei quartieri più poveri, fra il grottesco e l'arguzia che nascono copiosi nelle strade,
dove tutti sembra che recitino, e invece sono solo "se stessi".
E' un'esplosione di suoni e colori che addolcisce e alleggerisce anche i fatti di sangue più truci: è
la vita che esplode, piange e gioisce anche nel lutto, e gli attori caricaturisti drammatizzano ed enfatizzano all'estremo il proprio ruolo, ma senza forzature, vale a dire "napoletanamente".
Chi ha visitato Napoli e ha visto la sua vita scorrere nelle strade e nei suoi vicoli, fra i Bassi e le
scalinate, riconosce quelle atmosfere piene di sentori e suoni provenienti da mare e monti.
E i veri napoletani vi si muovono con disinvoltura, con le loro facce antiche che sembrano ignare di
essere al centro dell'attenzione, di calcare con distacco e saggezza le tavole di un palcoscenico.
E la musica ? E' il corollario naturale di una città di suoni e armonie.

A. Ferrin
Modena, 08/10/2017

domenica 1 ottobre 2017

L'INGANNO

                                                                     L'INGANNO

Ieri sera  ho visto "l'Inganno", ultimo film di Sofia Coppola con Colin Farrel, Nicol Kidman, Kirsten
Durst; ambientato durante la guerra di Secessione in U.S.A, a mio parere è emblematico della società
esistente nel profondo Sud del tempo, ma soprattutto della psicologia femminile di ogni tempo.
Gli elementi determinanti nella vicenda sono come sempre i sentimenti: amore gelosia possesso; nella
storia narrata, un soldato Nordista, ferito e disperso nelle retrovie Sudiste, è soccorso da alcune ragazze e ospitato nel loro Convitto, dove è curato e circondato di attenzioni.
Nella situazione si sovrappongono e intrecciano la curiosità delle donne per il giovane uomo che, a sua volta, non è insensibile al fascino femminile.
Le ragazze, compresa la Direttrice, già prese da romantici voli di fantasia, sono anche preda della gelosia e piene di aspettative, mentre il soldato si illude di potere disporre a suo piacere di un intero
gineceo, ma l'illusione dura poco: le donne sanno essere tanto amorose quanto spietate quando devono difendere il loro orticello.
Allora scatta la molla della solidarietà fra le donne, una solidarietà secondo me sconosciuta fra gli
uomini: con lucidità e determinazione, quasi con grazia e apparentemente senza grandi turbamenti, programmano la soppressione dell'uomo ormai nemico di tutte, la ragazza più giovane, forse la più
innocente, si presta a scegliere e cogliere i funghi più velenosi da servire al soldato nell'ultima,
sontuosa cena.
Il tutto in un'atmosfera rilassata, alla luce tenue delle candele, con le donne compite e agghindate per l'occasione.
A. Ferrin
modena, 01/10/2017