SCRIBERE

libreria di zurau
mercoledì 28 novembre 2018
SUL PREDELLINO
A spasso con Giusangela o, per meglio dire, in autobus; infatti durante la settimana ci ritroviamo alla fermata del bus, sotto i tigli di Corso Martiri: nessuno dei due sa chi aspetta chi, ma ci vediamo alle
otto in punto quasi per un appuntamento concordato, in attesa del 2.
E' l'ora di punta, la fermata è affollata di impiegati diretti ai quartieri industriali e, come di consueto,
i mezzi pubblici sono stracolmi.
I viali del Parco, sorti a fine '800 nell'area delle preesistenti mura antiche, sono offuscati dalle nebbie
autunnali, dalle fronde precipitano perle di rugiada, e si procede quasi come ombre nella caligine.
Abbraccio Giusangela e già si intravede il muso imponente del 2 che accosta alla pensilina.
Saliamo, in realtà cerchiamo di salire in vettura nel mezzo di un pigia pigia generale: dobbiamo essere pronti alla lotta per conquistare l'angusto spazio vitale, mettere in campo le nostre energie, con mezzi più o meno leciti, per fronteggiare montagne di muscoli e masse corpulenti che ostacolano il
cammino; finalmente, la massa informe dei passeggeri ha raggiunto un suo equilibrio fra " scusi, prego, pardon, sbuffi e sospiri", ma è anche confortata dal calore umano (leggi animale), che condivide con i compagni di viaggio.
Il contatto ravvicinato con i propri simili può essere fonte di imbarazzo e disagio: il grande naso adunco del mio vicino, naso che gli "piscia in bocca", incuriosisce, e mi opprime anche la sua mole, mentre può essere problematica anche l'eccessiva vicinanza alle ascelle altrui, ma il seno e il ventre della matrona imponente che sale e scende sui mie piedi sono senz'altro una sofferenza: è
necessario sottolineare quello che molti hanno notato? Le donne nere africane e centro sudamericane
mostrano spesso forme e rotondità generose che sembrano uscite da quadri di Botero; questa è tutt'altro che una nota poco rispettosa, perché infatti le vedo come simbolo di fecondità e prolificità.
Giusangela è scomparsa, sommersa nella calca o, spero per lei, ha trovato un anfratto in cui rifugiarsi.
Questo accade nelle ore di punta; altra cosa sono gli autobus nelle ore di "calma", quando non ci si
precipita per occupare il sedile; Giusangela e io possiamo sederci vicini, guardarci e conversare nei
pochi minuti del tragitto e, nello stesso tempo, dedicarci all'osservazione dell'umanità che ora ci è vicina: è un caleidoscopio di corpi, facce, fogge e colori, poiché la nostra comunità si può definire a
tutti gli effetti multietnica, e questa realtà è più tangibile sull'autobus utilizzato in queste ore più dagli extra comunitari che dagli autoctoni.
E tra gli extra comunitari si notano tutte le gradazioni dell'Africa nera, di quella nordafricana, del
medio-oriente, di Asia e sud est asiatico, e anche tra i bianchi si intercettano suoni dell'est Europa.
Completano il tutto i copricapi e i veli delle donne che mostrano solo bellissimi ovali del viso, e i bimbi che portano sulla schiena hanno sempre occhi grandi e stupiti che risplendono.
Osservo la tranquillità e serenità dei neri: hanno l'aria di chi viene da molto lontano, che ha una
lunga storia, che ha vissuto molto e sa della vita più di quanto noi possiamo immaginare.
Si spezza l'incanto quando gli africani usano il cellulare: i decibel raggiungono il loro massimo, quasi
vogliano farsi udire dai parenti del centro Africa ma, tutto sommato, mostrano tratti di dolcezza e gentilezza che noi abbiamo smarrito.
Infine siamo a destinazione: io e Giusangela ci separiamo per raggiungere le nostre mete.
A.Ferrin
modena, 28/11/2018
lunedì 26 novembre 2018
IL VIZIO DELLA SPERANZA
Il titolo "Il vizio della speranza" è frutto di una felice intuizione: infatti la speranza è un vizio un tra i più praticati, e con caparbietà, dall'umanità, un "vizio"che giustifica la vita, è quasi un suo sinonimo,
strettamente legato all'istinto di sopravvivenza.
Tutti ne siamo affetti, ma sono i più deboli, i più disperati fra la gente, a ricorrervi come ultimo scoglio cui aggrapparsi per non essere travolti dai flutti.
Si tratta di un film realistico sulla Campania odierna, e ne racconta miseria e degrado; erede del più
famoso neorealismo italiano del secondo dopoguerra, mostra una realtà che riporta appunto al crudo
realismo di quel tempo, ma c'è una differenza: il panorama di oggi è, se possibile, aggravato dalla presenza diffusa di immigrati africani clandestini che, con gli emarginati della provincia napoletana, formano una umanità miserabile e dolente che vive, anzi sopravvive, sugli argini del fiume Volturno, a Castel Volturno.
Protagonisti sono dunque puttane africane e italiane, papponi e pappone, italiani e africani, fra il commercio di droghe, e il traffico di uteri in affitto.
Maria, una bravissima Pina Turco, è una factotum: già prostituta, è la "caporale" delle nere, le
conduce sul luogo di lavoro, è Caronte sulle acque limacciose del Volturno, procura anche la droga
a sua madre,(o sua nonna?) a sua volta pappona e capo del racket del malaffare.
Ma le cose cambiano quando Maria scopre di essere in cinta: la gravidanza irrompe nel racconto quasi come un miracolo e le rivela il mistero ineffabile della maternità.
Maria aiuta una giovane prostituta di colore: questa vuole tenere il suo bambino, e sottrarlo alla tratta dei neonati "commissionati" da signore borghesi che vogliono un figlio, così aiuta la ragazza a fuggire, e nello stesso tempo scopre, lei, di essere in cinta.
A sua volta vuole tenere il bambino e, consapevole dei rischi cui va incontro, si ribella alle regole dell'organizzazione criminale.
Questa parte del film è volutamente velata di mistero: è una vera gravidanza? E' frutto della speranza di una nuova vita?
Il film di De Angelis mi è piaciuto molto: le scene nelle acque del Volturno dove scorrazzano i natanti usati dai clan per esercitare i loschi traffici tra le sponde inospitali e desolate del fiume, e sopratutto
le scene girate in un interno notturno dove Maria si rifugia nella misera baracca di africane che l'accolgono alla loro cena frugale: ballano e cantano in abiti etnici dai colori vivaci, mentre si leva il canto struggente e melodioso di una ragazza accompagnata da suoni e ritmi tribali che richiamano il Soul dei neri afroamericani.
A.Ferrin
modena, 24/11/2018
mercoledì 21 novembre 2018
L'ANIMALE CHE MI PORTO DENTRO
E' l'ultima opera dello scrittore Francesco Piccolo che, bontà sua, riconosce "l'animale che alberga in
noi", opera della quale il Corriere pubblica oggi una doppia recensione scritta dai suoi giornalisti.
noi", opera della quale il Corriere pubblica oggi una doppia recensione scritta dai suoi giornalisti.
Ricordo ciò che Rita Levi Montalcini diceva della violenza nell'umanità, dell'aggressività dell'uomo, dell'animale uomo (per dire anche donna).
La nostra scatola cranica contiene una parte di cervello più evoluto rispetto a un'altra ancora arcaica, primitiva, e non sappiamo se e quando evolverà.
Pertanto l'aggressività, gli istinti primordiali, la necessità e l'urgenza riproduttiva, hanno sede nella parte di cervello meno evoluto(irrazionale), mentre il progresso e la cultura hanno perfezionato la parte più razionale.
Lo scrittore, in una sorta di autobiografia, descrive la sua pubertà e l'adolescenza, la ricerca della propria identità fino ai primi turbamenti sessuali e affettivi, quando è alle prese con l'iperattività delle
gonadi.
gonadi.
Descrive le pulsioni proprie dell'età, l'angoscia e l'esaltazione della propria energia, della virilità e la scoperta che la potenza sessuale ha qualche relazione con la violenza che si manifesta negli uomini
e fra gli uomini, e quanto possa essere difficile e doloroso per l'uomo dominare questi istinti potenzialmente molto distruttivi e nello stesso tempo vitali.
Insomma la repressione degli istinti belluini è una necessità e condizione richiesta per la crescita della civiltà umana, è una delle prime teorie della psicanalisi, secondo cui le energie represse sono, il più delle volte, sublimate in sovrastrutture culturali.
Piccolo è consapevole che la cultura e la società hanno fortunatamente mitigato e cercato di regolare
l'aggressività umana, ma l'autore tratta infine l'uomo e la sua sessualità dal punto di vista esistenziale,
e qui il libro tocca, penso, il vissuto di ogni uomo e capisco il turbamento di Piccolo che, come maschio, confessa di essere sempre in mezzo al guado: tra il "maschio", l'uomo, e la femminilità in
quanto parte dell'immaginario maschile: la donna, estasi e tormento per gli uomini.
quanto parte dell'immaginario maschile: la donna, estasi e tormento per gli uomini.
A.Ferrin
modena, 21/11/2018
martedì 20 novembre 2018
INCONTRO
Ormai, dopo un autunno troppo mite, comincia l'inverno: devo coprirmi più del solito perché il freddo è pungente.
Discendo le scale a respirare un po d'aria fresca, e mi dirigo al locale più vicino per prendere il caffè; nonostante il tragitto sia breve, sono già intirizzito, e noto che l'adiacente area verde è quasi deserta perché solamente tre donne, sedute sulla panchina, parlottano e poi esplodono in risate fragorose: beate loro, penso, le donne in compagnia sono sempre loquaci, più estroverse di quanto siamo noi
uomini.
Riprendo il cammino nel controviale, e incrocio una donna che procede nel senso opposto, sembra molto bella, o lo è stata, perché spesso la bellezza lascia tracce anche nell'età matura.
La donna ha un portamento che denota una certa dignità e nobiltà, le vesti tradiscono qualità, fattura
d'annata ma anche un certa sciatteria, la capigliatura è folta ma trascurata, il viso senza trucco, le labbra con una traccia di rossetto che spicca sull'incarnato pallido, quasi trasparente e la osservo con malcelata curiosità.
La seguono due uomini in abito grigio e, non so perché, mi sembrano lì a proteggere la donna che però si mostra del tutto indifferente a ciò che la circonda.
Chi è? Mi arrovello inutilmente, tutto è indecifrabile: lei è assorta, aliena alla realtà circostante, realtà
che a sua volta la ignora; indifferenti sono i passanti che forse sono intimoriti da questa presenza, quasi evitano di entrare nella sua visuale: occhiate furtive hanno già colto lo sguardo fisso di occhi,
vitrei e inespressivi.
Mi fermo a osservare ostentatamente manifesti pubblicitari, e invece spio i movimenti della donna e
e degli uomini che la seguono.
Ad un tratto, sulla via Giardini appare un corteo di grosse auto nere, precedute e seguite da molte
staffette di moto guidate da carabinieri: il corteo si arresta all'altezza della signora che nel frattempo si è fermata, un componente del personale di scorta apre la portiera e la donna velocemente siede
accanto a un uomo in abito blu.
Il tutto in pochi attimi, e l'uomo al volante riparte con staffette e codazzo di macchine segnalate da
lampeggianti e sirene.
Non so chi fosse in quell'auto nera, il suo grado di autorità, da dove venisse e dove fosse diretta.
Io ho continuato il mio cammino.
A.Ferrin
modena,21/11/2018
venerdì 16 novembre 2018
ITACA
Da bufere e marosi
ritorna a casa
Odisseo
Fuggi suoni
lusinghe
illusorie
incanti
di sirene
e maghe fatali
Non sei pago
di cielo e mare
infidi
di oblio e fuga
da procelle
furie di mare?
Ormai stremato
approda
alla terra
del sole
in acque placate.
A.Ferrin
modena, 16/11/2018
mercoledì 14 novembre 2018
ORCOLAT
L'Orcolat, in friulano vuol dire "orcaccio" e viene da orcul, orso: così i friulani chiamano il terremoto
come l'orcolat della mitologia popolare che si risveglia dal letargo tra i monti provocando distruzione
e morte.
L"orcaccio" si risvegliò nel Friuli il 6 maggio del 1976: rase al suolo molti paesi, e fece 1000 morti.
Io e Montorsi, titolare della Kledon, siamo seduti al tavolo del Derby, il ristorante dell'omonimo albergo Cabaret in viale Monte Rosa a Milano; sono le 21 esatte: avverto un malore strano, per me
nuovo, mi sembra di svenire, afferro il braccio di Montorsi e confesso che non mi sento bene e lui, notando il mio pallore, mi invita a uscire dal ristorante per respirare aria fresca, lo seguo incerto
sulle gambe e infine siamo in strada che, notiamo, è stranamente affollata, sono usciti tutti per l'aria
fresca? No.
Voci allarmate e concitate parlano del terremoto, che hanno avvertito l'ondeggiare dei pavimenti,
percepito malesseri inquietanti, ognuno racconta la sua esperienza, e io sono rinfrancato perché il
mio malessere non è dovuto a un imminente collasso cardiaco, ma al "terremoto".
Il sistema neuro vegetativo mi ha fatto un brutto scherzo, io ho l'animo più leggero, ma siamo tutti
all'oscuro dei danni, lutti e senzatetto che il terremoto ha prodotto: penseranno i notiziari e i giornali
a colmare queste lacune.
Rientriamo nella sala ristorante per completare la cena: Ofelia, la cantante detta la Edith Piaf italiana,
si aggira fra i tavoli e canta le canzoni della francese, mentre nel Cabaret sottostante Diego, figlio dell'addetta al guardaroba, prepara la scena per lo spettacolo serale.
A.Ferrin
modena, 14/11/2018
lunedì 12 novembre 2018
SENZA LASCIARE TRACCIA
Ieri, al cinema Astra, ho visto "Senza lasciare traccia": il film americano di Debra Granik narra la vicenda, peraltro verosimile, di un padre che con la figlia adolescente fugge la società per vivere in un Parco Naturale vicino a Portland in Oregon.
Il padre Will è un reduce di guerra(Vietnam?) ferito nell'anima, e forse nella mente, la figlia Thomasin, adolescente, lo segue perché affascinata dalla scelta "romantica e idealistica" di allontanarsi dalla società civile per vivere isolati a contatto con la natura, una vita quasi eremitica fatta di frugalità, con mezzi e strumenti rudimentali.
Qui fa capolino il sogno libertario e pionieristico americano, con l'esplorazione, il desiderio della vita solitaria e avventurosa: penso al famoso "Walden" la vita nei boschi di Henry Thoreau, ma è anche
evidente che il padre Will soffre per i postumi della guerra, la figlia è invece condizionata dal legame
affettivo che li unisce.
Noi tutti abbiamo fantasticato, o vagheggiato fughe dalla realtà, di evadere dalla società, ma è la società moderna stessa, strutturata e tecnologica che, scoprendo la nostra fuga, cerca in ogni modo di ricondurci nell'alveo della "società civile", nel suo abbraccio "generoso"
E' ciò che accade nel film: padre e figlia sono individuati nei boschi e ricondotti a Portland, dove sono ospitati (padre e figlia divisi) in un centro apposito per essere sottoposti a esami e Test di vario genere, insomma una sorta di reinserimento programmato nella società.
Infatti la legge stabilisce che boschi e praterie sono suolo pubblico, e in quanto tali non possono
essere occupati liberamente
Quindi padre e figlia sono liberi di lasciare il Centro e viene loro assegnata una casetta, ma non si
adattano alla vita domestica e decidono di vivere in un accampamento di caravan con altri che hanno
fatto la scelta del nomadismo, per scelta o necessità.
E' una realtà libertaria e quasi zingaresca, una scelta difficile ma anche coraggiosa, e in USA sono
frequenti queste comunità sorte ai margini della società urbanizzata: ricordo un'altro film in cui una
comunità analoga di fuggiaschi, emarginati e reduci vivono nelle paludi della Louisiana.
Ma Will, il padre, non regge questa scelta: vuole veramente eclissarsi, scomparire, e riprende il suo
cammino solitario inoltrandosi nel folto dei boschi.
Thomasin, invece, ora non riesce, non vuole seguirlo.
E' struggente l'addio fra i due: lei che lo accompagna al limite della macchia, un lungo abbraccio al
padre e poi, quasi attratta da una forza irresistibile, riprende il sentiero dell'accampamento posto ai margini della città.
Belle le scene dell'accampamento precario abitato da individui e famiglie precari ma solidali, dove tutti si ritrovano ai fuochi per cucinare, parlare e cantare country al suono del banyo.
A:Ferrin
modena, 12/11/2018
giovedì 8 novembre 2018
PERCHE' ESSERE FEMMINISTI
Zenone di Elea, filosofo dell'antica Grecia, chiede retoricamente a se stesso e a noi:
"chi vorrebbe morire senza avere fatto almeno il giro della sua prigione? ".
Io dunque, da pensionato, non faccio altro che mettere in pratica il suggerimento di Zenone: esploro
lo spazio in cui vivo.
Ieri l'altro, in una delle librerie modenesi (la Ubik) era prevista la presentazione del libro di un accademico di Unimore:
"Diritto e (dis)parità. Dalla discriminazione di genere alla democrazia paritaria".
L'incontro della serata è il primo di tre il cui tema è: "Perché essere femministi"; il tutto organizzato con Unimore di MO/RE, Centro documentazione Donna di Modena, e con patrocinio del Comune di Modena.
Introduce la presidente del Centro documentazione Donna, Vittorina Maestroni che si dilunga (come
accade spesso in simili circostanze) in una prolissa presentazione dell'autore, accademico di Unimore,
e del presidente della Fondazione San Carlo; come in ogni "introduzione" che si rispetti, la Maestroni
infarcisce di formalità, piaggeria e auto referenzialità, ( non rinunciando a dire la sua anche sui contenuti del libro) la presentazione degli ospiti.
Finalmente l'autore del libro interviene e debutta illustrando le buone ragioni per essere femministi, pure affermando che lui si sente ed è maschio, e sciorina la serie infinita di luoghi comuni propri del
Femminismo più radicale, quelli ormai rivisti e temperati anche dagli eredi del femminismo storico.
La relazione dell'autore lambisce anche i "massimi sistemi" con un eloquio lungo, acritico e inutilmente accademico, col quale intende omologare la rivoluzione sociale, sessuale e di genere scaturita dal '68 in poi.
Tutto è progresso afferma, e molta strada c'è ancora da fare perché maturi una vera coscienza
democratica e approdare così alla parità di genere nella nostra società.
Un applauso educato accoglie la conclusione dell'oratore, e la Maestroni invita il presidente del San
Carlo a intervenire.
A questo punto io, che ho ascoltato con insofferenza crescente una "lezione accademica", ho anche
realizzato che sono capitato nel mezzo di "democratici e progressisti" che, pure essendo reduci da ripetute catastrofi ideologiche e politiche, sono sempre arroganti: il clima è di plumbeo conformismo, da pensiero unico.
Infatti, con una certa foga, chiedo di potere intervenire perché non ritengo corretto che il tavolo della
presidenza monopolizzi la serata e non dia spazio alla platea.
Apriti cielo! Clamore in sala: i più reagiscono malamente alla mia iniziativa, e le donne, che sono la
grande maggioranza, sono le più determinate, ma infine l'autore del libro, bontà sua, mi concede la parola.
Io mi limito a osservare che mi aspettavo fosse una donna a svolgere il tema proposto, e chiedo anzi
(perché no?) che sarebbe anche opportuno sviscerare il tema: "perché essere maschilisti", e aggiungo: per me non c'è maschilismo e femminismo, ma piuttosto femminilità e mascolinità o, meglio ancora,
donne uomini e persone, ma la mia voce già si perde nel frastuono.
Ancora clamore in sala: una voce di donna grida: "se non le interessa l'argomento può andarsene", e
io rispondo : viva la democrazia.
Ora è tornata una calma apparente: il presidente del San Carlo inizia il suo intervento e mostra più
concretezza del precedente.
Ma io sono stanco, non voglio sorbirmi un'altra ora di parole e mettere a repentaglio le mie coronarie.
Mi alzo dalla sedia e rivolto a tutti: mi dispiace ma devo lasciare "l'assemblea parrocchiale", e mi dirigo all'uscita, a respirare aria fresca.
L'insegnamento che traggo da questa mia piccola esperienza? Le donne, almeno quelle viste in questa
occasione, rivendicano e proclamano, ma infine, nei fatti, figurano sempre nelle seconde file in posizioni subordinate agli uomini, in ruoli quasi ancillari.
A.Ferrin
modena, 08/11/2018
martedì 6 novembre 2018
TEMPO
Dissipiamo
il tempo
di vivere
con pensieri
opere vane
sogni
di felicità
visione carpita
stupita
di Amore
bellezza
di mondi arcani
miriamo
l'universo
che colmi
animo e mente
Frammenti
vitali
di uomo
tra uomini
che al tramonto
cercano quiete.
A.Ferrin
modena, 06/11/2018
giovedì 1 novembre 2018
INSURREZIONE UNGHERESE
E' il 1956, dal 23 ottobre al 10 novembre, e io sono in Collegio a Ferrara, nell'antica sede di via Cairoli: le giornate trascorrono nello studio e nella vita comunitaria ancora spensierata, nonostante io
sia alle prese con la prima adolescenza, con tutto quanto ciò comportasse in termini di sviluppo fisico e psichico.
Ovviamente io, come i miei compagni di studi, non mi interessavo di politica, ed ero sommariamente
informato sull'attualità nella società italiana o europea; infatti guardavamo ( e non sempre) l'unico canale TV in b/n, o coglievamo i commenti dei più grandi, e tuttavia possedevo già alcuni tratti del
carattere idealista che avrei conservato in futuro.
Si era in piena "guerra fredda" fra i due campi, occidentale e orientale, che si fronteggiavano armati fino ai denti, e che già disponevano di arsenale nucleare.
Nell'Europa Orientale controllata dalla U.R.S.S., e soggetta a regimi comunisti, quali Polonia, DDR,
Paesi in cui erano già scoppiati moti popolari di protesta, mentre la Jugoslavia, pur conservando un regime comunista, aveva preso le distanze dai regimi di obbedienza sovietica.
Avrei compiuto i 14 anni in dicembre e pertanto, ripeto, non possedevo molti elementi per valutare gli avvenimenti politici nazionali e internazionali: partecipavo emotivamente agli eventi del mondo, almeno di quelli più clamorosi, che ispiravano sentimenti di simpatia e solidarietà.
Tutto cominciò il 23 ottobre con una manifestazione studentesca sostenuta dal Circolo Petofi (Poeta eroe della rivoluzione del 1848); gli studenti rivendicavano diritti condivisibili, le voci si diffusero
rapidamente e davanti al Parlamento si ritrovarono in circa 200.000: le proteste contro il Regime
salirono di tono, e i manifestanti rivendicarono libertà per l'Ungheria e l'uscita dell'Armata Rossa che
occupava il Paese dalla fine della 2^ guerra mondiale.
La polizia aprì il fuoco sui dimostranti provocando i primi morti.
Fu l'insurrezione armata: la mia memoria focalizza i primi giorni dell'insurrezione in cui sembrò che
i rivoltosi(ai quali si erano uniti alcuni reparti dell'esercito ungherese), avessero la meglio, e infatti le forze Sovietiche mostravano di volere lasciare il Paese, ma si trattò di un inganno.
Nei pochi giorni di libertà erano stati liberati prigionieri politici e il Card.Midzenty, ripristinata la
libertà di stampa e il pluripartitismo.
Gli ungheresi festeggiavano quando, alle prime luci del 4 Novembre, i cittadini di Budapest furono
svegliati dai cingoli dei carri armati che invadevano la città e il Paese.
I sovietici impiegarono 200.000 uomini e 4000 carri armati (si disse fosse un corpo d'invasione più
potente di quello che i nazisti avevano impiegato nella "Operazione Barbarossa").
La resistenza degli ungheresi fu semplicemente eroica e commovente: noi ragazzi eravamo attenti
alle cronache radio che informavano in "tempo reale", e si trattava per lo più di radio "libere"private
o di Radio Europa libera che trasmetteva da Monaco di Baviera.
Rimasero nella memoria nomi che non potevano non affascinare sopratutto i giovani, per l'esempio
che davano di coraggio e coerenza: mi riferisco a Imre Nagy, che era già stato vittima di purghe staliniste, a Pal Maleter (Colonnello dell'esercito eroe della resistenza ai nazisti) e ad altri 1200, più oscuri protagonisti della insurrezione.
Morirono 2500 ungheresi e 750 russi, altri 1200 ungheresi furono condannati e giustiziati negli anni
successivi, e 250.000 fuggirono all'estero.
Imre Nagy e Pal Maleter furono catturati con l'inganno all'uscita dell'Ambasciata Jugoslava nella quale avevano trovato ospitalità e rifugio: non era stato rispettato il salvacondotto di Kadar.
Si trattò infine di un esito quasi scontato (con il senno di poi): l'Ungheria "doveva" appartenere al
campo comunista, e i Paesi occidentali non potevano intervenire nonostante gli accorati appelli e
invocazioni d'aiuto provenienti dagli insorti che soccombevano nell'impari lotta.
P.S.
A volte, la storia fa giustizia (spesso troppo tardi) delle falsità e nefandezze degli uomini:
*Sconfitta la Rivoluzione, il governo filo-sovietico di Kadar procedette alla restaurazione con
processi e condanne a morte.
Nel maggio '58 Imre Nagy e Pal Maleter e il giornalista Miklos Gymes furono condannati a morte: Palmiro Togliatti, il quale aveva approvato l'invasione dell'Ungheria, si espresse per la loro condanna, ma chiese che l'esecuzione fosse posticipata nel timore che l'evento pesasse negativamente nelle elezioni politiche italiane di Giugno.
Il 16 giugno i condannati furono impiccati.
Alla caduta dei regimi comunisti dell'Europa orientale negli anni 89/90, Nagy, Maleter e Gymes furono riabilitati al pari di quanti avevano partecipato alla Rivoluzione.
Venne riesumato il corpo di Nagy(il cui luogo di sepoltura era ignoto), e trasferito nel Cimitero di
Budapest.
Dopo Perestroica e Glasnost di Gorbaciov, il presidente Yeltsin si recò in Ungheria e davanti al
Parlamento ammise che l'URSS aveva sbagliato a invadere il Paese.
*Lo scoppio della rivoluzione ungherese e l'intervento russo provocarono una grande diaspora fra gli
intellettuali comunisti italiani ed europei, e anche il futuro Presidente Napolitano(il migliorista!) che aveva approvato l'invasione, in qualità di Presidente ammise di avere sbagliato.
A.Ferrin
modena, 1/11/2018
Iscriviti a:
Post (Atom)