SCRIBERE

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libreria di zurau

mercoledì 19 dicembre 2018

PRESEPE



Greppia o Mangiatoia, dal latino Praesepae, questa è l'origine dell'antica rappresentazione della natività, patrimonio della nostra cultura, soppiantata nel secondo dopoguerra dalla tradizione nordica
dell'abete, e che tuttavia resiste ancora come ricordo del Natale cristiano.
Nei primi secoli del cristianesimo, gli stessi Vangeli non sono prodighi di notizie circa la nascita del Cristo, e di Giuseppe e Maria; tutto è narrato come una favola bella e suggestiva, una favola in cui i protagonisti sono comuni mortali in povertà, e molti di essi vivono in capanne o grotte con animali domestici.
Solamente dal IV e V°secolo, diventato il cristianesimo religione dell'Impero, e lasciate le catacombe, i cristiani organizzano la loro religione strutturandola con dottrina, teologia, gerarchia e liturgia; il merito è dei cosiddetti Padri della Chiesa( S.Paolo, S.Agostino, ecc.).
La nascita del Presepe che noi conosciamo risale invece al 1200 per merito di S.Francesco: è una
rappresentazione poetica di una vicenda sospesa tra realtà storica, sogno, fantasia, e fortemente simbolica.
Il racconto evangelico, dal punto di vista della comunicazione non potrebbe essere più azzeccato: un
neonato bello adagiato sul pagliericcio, vegliato amorevolmente da mamma e papà, al calore animale
di una stalla; questa visione commuove piccoli e grandi: c'è meraviglia e stupore come per ogni          nascita, c'è tenerezza e istinto di protezione per un essere fragile e indifeso, quasi che la nostra specie
voglia farsi scudo a difesa dei nuovi nati.
D'altra parte questi atteggiamenti protettivi non sono prerogativa dei soli umani: anche il mondo degli animali adotta comportamenti "umani" con i suoi cuccioli, insomma è una strategia difensiva e istintiva di sopravvivenza presente in tutti gli esseri viventi.
Tutto questo per dire che tutti ci siamo più o meno commossi davanti al Presepe, dalla più semplice e
povera mangiatoia, alle più sofisticate e grandi ricostruzioni fatte di tecnologia ed effetti speciali.
Le immagini dei Presepi dello zio Attilio, di mio padre Leone o di mio fratello Ermanno, sono
indelebili nella memoria: erano creazioni e produzioni frutto di tradizione e cultura, passione, amore
e ingegnosità.
Ricordo infine i pecorai che, lasciati gli ovili e coperti con pelli di pecora, scendevano al piano con le greggi governate da cani sapienti, migravano al suono di zampogne e sonagli.
E'facile affascinare i piccoli, e sono consapevole che i ricordi più lontani possono essere ingigantiti e idealizzati dalla nostalgia per ciò che abbiamo perduto.
A.Ferrin
20/12/2018



lunedì 17 dicembre 2018

CORINALDO




Corinaldo è uno dei tanti paesi di cui sono disseminate le Marche e le colline del centro Italia, sono Borghi ricchi di storia e bellezza: il paesaggio è ondulato, con poche asperità, le colture sono ordinate a perdita d'occhio, e con il variare delle stagioni sono cangianti tavolozze di colori.
Quindi è una cittadina della provincia profonda dove la vita scorre lontana dal frastuono delle grandi
città, ma il relativo isolamento è colmato dai mezzi moderni di comunicazione di cui si avvalgono le
giovani generazioni, unite dal linguaggio quasi cifrato che li accomuna e che consente loro di
accedere facilmente alle suggestioni pubblicitarie, anche trasgressive, di cui sono i destinatari.
La vicenda di Corinaldo ,un paese di 4500 abitanti, è significativa del potere della comunicazione che con internet e cellulari riesce a mobilitare masse provenienti da ogni angolo d'Italia per un concerto, in questo caso quello di Sfera Ebbasta, che ha provocato morti e feriti.
Non sono stati rispettate normative e limiti, norme di sicurezza e prudenza, quindi molte le cause e concause della tragedia che però conducono ai giovani e ai loro problemi (molti di essi adolescenti con meno di 18 anni).
L'artista può essere discutibile, e in questo caso la sua produzione è lontana dall'idea che ho della buona musica e di un bel testo, ma come genitore rifletto circa le caratteristiche del fenomeno, e
senza esprimere giudizi, preferisco esprimere un'opinione dettata dall'esperienza e dall'età.
Penso che i movimenti e le trasformazioni della società negli anni '50, '60, '70, e parzialmente negli
anni '80, fossero frutto della crescita economica, c'era più ottimismo, fiducia nel futuro, più tensione
ideale e culturale.
Nello stesso tempo il grande sviluppo economico, induceva anche profondi mutamenti in tutta la società: cambiamenti nella morale personale e pubblica, cambiamenti che hanno investito la famiglia,
scardinandone l'istituzione.
Stiamo pagando le conseguenze di tutto ciò, e le nuove generazioni le pagano più degli anziani: sono
disorientati, non hanno punti di riferimento, i genitori sono confusi a loro volta, e come guida ai giovani non resta che un comodo relativismo etico, un'illusoria libertà totale.
A.Ferrin
modena, 17/12/2018     
                                                                                                                                                                   

venerdì 14 dicembre 2018

LA PESTE

senza tetto con il suo cane



Mi sono recato allo Spaccio del Policlinico e, non so perché, ho scelto le ore più fredde del mattino;
le previsioni danno per imminenti neve e gelo, e infatti marciapiedi e accessi sono cosparsi di sale.
Uscendo dal nosocomio mi si è avvicinato un signore male in arnese che, con gentilezza, mi ha chiesto 50 centesimi: io sorpreso e quasi per istinto, ho detto di non avere spiccioli, e lui di rimando,
se vuole posso cambiarle la cartamoneta.
Questa sua disponibilità, espressa con sicurezza e garbo nello stesso tempo, mi ha scombussolato: 
lì per lì ho contato fino a dieci prima di reagire alla sua faccia tosta, e poi ho controllato l'istinto che mi suggeriva di staccargli un orecchio con un morso animalesco, invece ho sorriso e ho raggiunto
il bus.
Giunto in via Giardini, mi avvio verso casa rimuginando sull'incontro con il questuante cortese ma
sfrontato quando, all'altezza de "L'isola del tesoro", mi avvicina una signora di mezza età che, con espressione dolente, vuole parlarmi del suo caso pietoso: è rumena, desidera rientrare nel suo Paese, ma non trova chi possa o voglia aiutarla; le suggerisco di rivolgersi alle istituzioni pubbliche, come il Comune, ma risponde che le offrono solamente il ricovero gratuito in un'ospedale.
Ora sono perplesso, e lei, notando il mio stato d'animo, si denuda il petto e mostra che è privo di un seno, esito di una mastectomia dovuta a un carcinoma.
Ho cercato di distogliere gli occhi invitandola a coprirsi, ma non ho evitato del tutto lo spettacolo impressionante della mutilazione: tristezza e molta pena.
Nonostante siamo informati e bersagliati dai problemi della sanità, circa le debolezze e fragilità della natura umana, scopriamo di essere comunque vulnerabili anche alla semplice visione del male e della
sofferenza.
Ho riconsiderato quest'ultimo incontro con la signora rumena, e ora mi sento in colpa per la rapidità
con la quale ho lasciato la povera donna, quasi io dovessi fuggire da un pericolo incombente: avrei dovuto dialogare con lei dicendole che anche la mia seconda moglie aveva subito questo intervento
chirurgico; per la signora non sarebbe stata una grande consolazione, ma avrei mostrato più umanità.
A.Ferrin
modena, 14/12/2018


mercoledì 12 dicembre 2018

DELIZIE ESTENSI



Zenzalino è, o meglio è stata, una delle 19 Delizie Estensi che i Duchi di Ferrara avevano creato nelle loro terre: erano dette Delizie perché luoghi di ozio e piaceri vari di cui i Duchi potevano disporre, tra grandi boschi e territori ricchi di selvaggina (Zenzalino deriva da "cenghialine").
Ma sono lontani ricchezza e splendore del Rinascimento; poco resta dell'antico insediamento: una  residenza nobiliare di campagna del '700 ricorda appunto l'antica Zenzalino dove, negli anni 80 del '500, si era consumato un tragico fatto di sangue.
Il Conte ErcoleTrotti aveva assoldato un sicario per uccidere la moglie Anna Guarini sospettata
di tradimento, e di questo fatto non mancano fantasticherie e leggende più o meno verosimili.
D'altra parte questo uxoricidio rimanda a quello più famoso del '400 legato all'amore clandestino fra Laura Malatesta, detta anche Parisina, e Ugo d'Este, figlio del Duca di Ferrara Niccolò III.
Parisina era nata sotto una cattiva stella: aveva pochi giorni quando sua madre venne avvelenata dal
padre Francesco III Ordelaffi.
Ugo e Parisina furono colti in flagrante dal Duca nel Castello Estense e decapitati con rito sommario
come era in uso allora, quando i Signori detenevano un potere pressoché assoluto.
Lo scenario teatro di questa storia è oggetto ancora oggi della curiosità dei turisti, in visita a Ferrara
per ammirarne le bellezze.
E poi si parla di amor cortese e romanticismo del passato!
A.Ferrin
modena, 12/12/2018

domenica 2 dicembre 2018

ATTORE



Questa sera
non è vino allegro
che fa barcollare
nella via deserta
lastricata di specchi
da gelida pioggia

Altri indugiano
tra le quinte:
attore solitario
dico parole vane
urlo per udire
la mia voce

Ma questa sera
non voglio recitare:
come marionetta
dai fili spezzati
voglio abbandonarmi
libero e riposare.

Questi versi sono del gennaio '85, poco dopo la separazione da moglie e figli, sancita in ottobre e seguita, trascorsi i cinque anni previsti dalla legge, dal divorzio.
Si trattò di una profonda lacerazione, e tuttavia trovai energie per vivere ancora, per i miei figli piccoli, e certamente grazie all'istinto di sopravvivenza.
Oggi, dicembre 2018, vivo ancora solo, dopo avere contratto un secondo matrimonio, seguito da un
secondo divorzio.
E' troppo! Anche per chi, come me, ha sempre creduto nel matrimonio, e forse proprio per questo; d'altra parte si dice che "errare è umano, perseverare ...".
Adesso guardo al presente, e a ciò che rimane del futuro, con distacco; ho abbandonato ogni illusione:
credo infatti, come Hofmansthal, che noi e la nostra vita, siamo fatti della stessa materia dei sogni.
Antonio Ferrin
modena, 5/12/2018


mercoledì 28 novembre 2018

SUL PREDELLINO



A spasso con Giusangela o, per meglio dire, in autobus; infatti durante la settimana ci ritroviamo alla fermata del bus, sotto i tigli di Corso Martiri: nessuno dei due sa chi aspetta chi, ma ci vediamo alle
otto in punto quasi per un appuntamento concordato, in attesa del 2.
E' l'ora di punta, la fermata è affollata di impiegati diretti ai quartieri industriali e, come di consueto,
i mezzi pubblici sono stracolmi.
I viali del Parco, sorti a fine '800 nell'area delle preesistenti mura antiche, sono offuscati dalle nebbie
autunnali, dalle fronde precipitano perle di rugiada, e si procede quasi come ombre nella caligine.
Abbraccio Giusangela e già si intravede il muso imponente del 2 che accosta alla pensilina.
Saliamo, in realtà cerchiamo di salire in vettura nel mezzo di un pigia pigia generale: dobbiamo essere pronti alla lotta per conquistare l'angusto spazio vitale, mettere in campo le nostre energie, con mezzi più o meno leciti, per fronteggiare montagne di muscoli e masse corpulenti che ostacolano il
cammino; finalmente, la massa informe dei passeggeri ha raggiunto un suo equilibrio fra " scusi, prego, pardon, sbuffi e sospiri", ma è anche confortata dal calore umano (leggi animale), che condivide con i compagni di viaggio.
Il contatto ravvicinato con i propri simili può essere fonte di imbarazzo e disagio: il grande  naso adunco del mio vicino, naso che gli "piscia in bocca", incuriosisce, e mi opprime anche la sua mole, mentre può essere problematica anche l'eccessiva vicinanza alle ascelle altrui, ma il seno e il ventre della matrona imponente che sale e scende sui mie piedi sono senz'altro una sofferenza: è
necessario sottolineare quello che molti hanno notato? Le donne nere africane e centro sudamericane
mostrano spesso forme e rotondità generose che sembrano uscite da quadri di Botero; questa è tutt'altro che una nota poco rispettosa, perché infatti le vedo come simbolo di fecondità e prolificità.
Giusangela è scomparsa, sommersa nella calca o, spero per lei, ha trovato un anfratto in cui rifugiarsi.
Questo accade nelle ore di punta; altra cosa sono gli autobus nelle ore di "calma", quando non ci si
precipita per occupare il sedile; Giusangela e io possiamo sederci vicini, guardarci e conversare nei
pochi minuti del tragitto e, nello stesso tempo, dedicarci all'osservazione dell'umanità che ora ci è vicina: è un caleidoscopio di corpi, facce, fogge e colori, poiché la nostra comunità si può definire a
tutti gli effetti multietnica, e questa realtà è più tangibile sull'autobus utilizzato in queste ore più dagli extra comunitari che dagli autoctoni.
E tra gli extra comunitari si notano tutte le gradazioni dell'Africa nera, di quella nordafricana, del
medio-oriente, di Asia e sud est asiatico, e anche tra i bianchi si intercettano suoni dell'est Europa.
Completano il tutto i copricapi e i veli delle donne che mostrano solo bellissimi ovali del viso, e i bimbi che portano sulla schiena hanno sempre occhi grandi e stupiti che risplendono.
Osservo la tranquillità e serenità dei neri: hanno l'aria di chi viene da molto lontano, che ha una
lunga storia, che ha vissuto molto e sa della vita più di quanto noi possiamo immaginare.
Si spezza l'incanto quando gli africani usano il cellulare: i decibel raggiungono il loro massimo, quasi
vogliano farsi udire dai parenti del centro Africa ma, tutto sommato, mostrano tratti di dolcezza e gentilezza che noi abbiamo smarrito.
Infine siamo a destinazione: io e Giusangela ci separiamo per raggiungere le nostre mete.
A.Ferrin
modena, 28/11/2018




lunedì 26 novembre 2018

IL VIZIO DELLA SPERANZA



Il titolo "Il vizio della speranza" è frutto di una felice intuizione: infatti la speranza è un vizio un tra i più praticati, e con caparbietà, dall'umanità, un "vizio"che giustifica la vita, è quasi un suo sinonimo,
strettamente legato all'istinto di sopravvivenza.
Tutti ne siamo affetti, ma sono i più deboli, i più disperati fra la gente, a ricorrervi come ultimo scoglio cui aggrapparsi per non essere travolti dai flutti.
Si tratta di un film realistico sulla Campania odierna, e ne racconta miseria e degrado;  erede del più
famoso neorealismo italiano del secondo dopoguerra, mostra una realtà che riporta appunto al crudo
realismo di quel tempo, ma c'è una differenza: il panorama di oggi è, se possibile, aggravato dalla presenza diffusa di immigrati africani clandestini che, con gli emarginati della provincia napoletana,    formano una umanità miserabile e dolente che vive, anzi sopravvive, sugli argini del fiume Volturno, a Castel Volturno. 
Protagonisti sono dunque puttane africane e italiane, papponi e pappone, italiani e africani, fra il commercio di droghe, e il traffico di uteri in affitto.
Maria, una bravissima Pina Turco, è una factotum: già prostituta, è la "caporale" delle nere, le
conduce sul luogo di lavoro, è Caronte sulle acque limacciose del Volturno, procura anche la droga
a sua madre,(o sua nonna?) a sua volta pappona e capo del racket del malaffare.
Ma le cose cambiano quando Maria scopre di essere in cinta: la gravidanza irrompe nel racconto quasi come un miracolo e le rivela il mistero ineffabile della maternità.
Maria aiuta una giovane prostituta di colore: questa vuole tenere il suo bambino, e sottrarlo alla tratta dei neonati "commissionati" da signore borghesi che vogliono un figlio, così aiuta la ragazza a fuggire, e nello stesso tempo scopre, lei, di essere in cinta.
A sua volta vuole tenere il bambino e, consapevole dei rischi cui va incontro, si ribella alle regole  dell'organizzazione criminale.
Questa parte del film è volutamente velata di mistero: è una vera gravidanza? E' frutto della speranza di una nuova vita?
Il film di De Angelis mi è piaciuto molto: le scene nelle acque del Volturno dove scorrazzano i natanti usati dai clan per esercitare i loschi traffici tra le sponde inospitali e desolate del fiume, e sopratutto
le scene girate in un interno notturno dove Maria si rifugia nella misera baracca di africane che l'accolgono alla loro cena frugale: ballano e cantano in abiti etnici dai colori vivaci, mentre si leva il canto struggente e melodioso di una ragazza accompagnata da suoni e ritmi tribali che richiamano il Soul dei neri afroamericani.
A.Ferrin
modena, 24/11/2018
                                                                                                                                                               

mercoledì 21 novembre 2018

L'ANIMALE CHE MI PORTO DENTRO



E' l'ultima opera dello scrittore Francesco Piccolo che, bontà sua, riconosce "l'animale che alberga in
noi", opera della quale il Corriere pubblica oggi una doppia recensione scritta dai suoi giornalisti. 
Ricordo ciò che Rita Levi Montalcini diceva della violenza nell'umanità, dell'aggressività dell'uomo, dell'animale uomo (per dire anche donna).
La nostra scatola cranica contiene una parte di cervello più evoluto rispetto a un'altra ancora arcaica, primitiva, e non sappiamo se e quando evolverà.
Pertanto l'aggressività, gli istinti primordiali, la necessità e l'urgenza riproduttiva, hanno sede nella parte di cervello meno evoluto(irrazionale), mentre il progresso e la cultura hanno perfezionato la parte più razionale.
Lo scrittore, in una sorta di autobiografia, descrive la sua pubertà e l'adolescenza, la ricerca della propria identità fino ai primi turbamenti sessuali e affettivi, quando è alle prese con l'iperattività delle
gonadi.
Descrive le pulsioni proprie dell'età, l'angoscia e l'esaltazione della propria energia, della virilità e la scoperta che la potenza sessuale ha qualche relazione con la violenza che si manifesta negli uomini
e fra gli uomini, e quanto possa essere difficile e doloroso per l'uomo dominare questi istinti potenzialmente molto distruttivi e nello stesso tempo vitali. 
Insomma la repressione degli istinti belluini è una necessità e condizione richiesta per la crescita della civiltà umana, è una delle prime teorie della psicanalisi, secondo cui le energie represse sono, il più delle volte, sublimate in sovrastrutture culturali.
Piccolo è consapevole che la cultura e la società hanno fortunatamente mitigato e cercato di regolare
l'aggressività umana, ma l'autore tratta infine l'uomo e la sua sessualità dal punto di vista esistenziale, 
e qui il libro tocca, penso, il vissuto di ogni uomo e capisco il turbamento di Piccolo che, come maschio, confessa di essere sempre in mezzo al guado: tra il "maschio", l'uomo, e la femminilità in
quanto parte dell'immaginario maschile: la donna, estasi e tormento per gli uomini.
A.Ferrin
modena, 21/11/2018

martedì 20 novembre 2018

INCONTRO




Ormai, dopo un autunno troppo mite, comincia l'inverno: devo coprirmi più del solito perché il freddo è pungente.
Discendo le scale a respirare un po d'aria fresca, e mi dirigo al locale più vicino per prendere il caffè;  nonostante il tragitto sia breve, sono già intirizzito, e noto che l'adiacente area verde è quasi deserta perché solamente tre donne, sedute sulla panchina, parlottano e poi esplodono in risate fragorose: beate loro, penso, le donne in compagnia sono sempre loquaci, più estroverse di quanto siamo noi
uomini.
Riprendo il cammino nel controviale, e incrocio una donna che procede nel senso opposto, sembra molto bella, o lo è stata, perché spesso la bellezza lascia tracce anche nell'età matura.
La donna ha un portamento che denota una certa dignità e nobiltà, le vesti tradiscono qualità, fattura
d'annata ma anche un certa sciatteria, la capigliatura è folta ma trascurata, il viso senza trucco, le labbra con una traccia di rossetto che spicca sull'incarnato pallido, quasi trasparente e la osservo con malcelata curiosità.
La seguono due uomini in abito grigio e, non so perché, mi sembrano lì a proteggere la donna che però si mostra del tutto indifferente a ciò che la circonda. 
Chi è? Mi arrovello inutilmente, tutto è indecifrabile: lei è assorta, aliena alla realtà circostante, realtà
che a sua volta la ignora; indifferenti sono i passanti che forse sono intimoriti da questa presenza, quasi evitano di entrare nella sua visuale: occhiate furtive hanno già colto lo sguardo fisso di occhi,
vitrei e inespressivi.         
Mi fermo a osservare ostentatamente manifesti pubblicitari, e invece spio i movimenti della donna e
e degli uomini che la seguono.
Ad un tratto, sulla via Giardini appare un corteo di grosse auto nere, precedute e seguite da molte
staffette di moto guidate da carabinieri: il corteo si arresta all'altezza della signora che nel frattempo si è fermata, un componente del personale di scorta apre la portiera e la donna velocemente siede
accanto a un uomo in abito blu.
Il tutto in pochi attimi, e l'uomo al volante riparte con staffette e codazzo di macchine segnalate da
lampeggianti e sirene.
Non so chi fosse in quell'auto nera, il suo grado di autorità, da dove venisse e dove fosse diretta.
Io ho continuato il mio cammino.
A.Ferrin
modena,21/11/2018

venerdì 16 novembre 2018

ITACA



Da bufere e marosi
ritorna a casa
Odisseo
Fuggi suoni
lusinghe
illusorie
incanti
di sirene
e maghe fatali
Non sei pago
di cielo e mare
infidi
di oblio e fuga
da procelle
furie di mare?
Ormai stremato
approda
alla terra
del sole
in acque placate.                                                                                                                   
A.Ferrin
modena, 16/11/2018

mercoledì 14 novembre 2018

ORCOLAT



L'Orcolat, in friulano vuol dire "orcaccio" e viene da orcul, orso: così i friulani chiamano il terremoto
come l'orcolat della mitologia popolare che si risveglia dal letargo tra i monti provocando distruzione
e morte.
L"orcaccio" si risvegliò nel Friuli il 6 maggio del 1976: rase al suolo molti paesi, e fece 1000 morti.
Io e Montorsi, titolare della Kledon, siamo seduti al tavolo del Derby, il ristorante dell'omonimo albergo Cabaret in viale Monte Rosa a Milano; sono le 21 esatte: avverto un malore strano, per me
nuovo, mi sembra di svenire, afferro il braccio di Montorsi e confesso che non mi sento bene e lui, notando il mio pallore, mi invita a uscire dal ristorante per respirare aria fresca, lo seguo incerto
sulle gambe e infine siamo in strada che, notiamo, è stranamente affollata, sono usciti tutti per l'aria
fresca? No.
Voci allarmate e concitate parlano del terremoto, che hanno avvertito l'ondeggiare dei pavimenti,
percepito malesseri inquietanti, ognuno racconta la sua esperienza, e io sono rinfrancato perché il
mio malessere non è dovuto a un imminente collasso cardiaco, ma al "terremoto".
Il sistema neuro vegetativo mi ha fatto un brutto scherzo, io ho l'animo più leggero, ma siamo tutti
all'oscuro dei danni, lutti e senzatetto che il terremoto ha prodotto: penseranno i notiziari e i giornali
a colmare queste lacune.
Rientriamo nella sala ristorante per completare la cena: Ofelia, la cantante detta la Edith Piaf italiana,
si aggira fra i tavoli e canta le canzoni della francese, mentre nel Cabaret sottostante Diego, figlio dell'addetta al guardaroba, prepara la scena per lo spettacolo serale.
A.Ferrin
modena, 14/11/2018

lunedì 12 novembre 2018

SENZA LASCIARE TRACCIA



Ieri, al cinema Astra, ho visto "Senza lasciare traccia": il film americano di Debra Granik  narra la vicenda, peraltro verosimile, di un padre che con la figlia adolescente fugge la società per vivere in un Parco Naturale vicino a Portland in Oregon.
Il padre Will è un reduce di guerra(Vietnam?) ferito nell'anima, e forse  nella mente, la figlia Thomasin, adolescente, lo segue perché affascinata dalla scelta "romantica e idealistica" di allontanarsi dalla società civile per vivere isolati a contatto con la natura, una vita quasi eremitica fatta di frugalità, con mezzi e strumenti rudimentali.
Qui fa capolino il sogno libertario e pionieristico americano, con l'esplorazione, il desiderio della vita solitaria e avventurosa: penso al famoso "Walden" la vita nei boschi di Henry Thoreau, ma è anche
evidente che il padre Will soffre per i postumi della guerra, la figlia è invece condizionata dal legame
affettivo che li unisce.
Noi tutti abbiamo fantasticato, o vagheggiato fughe dalla realtà, di evadere dalla società, ma è la società moderna stessa, strutturata e tecnologica che, scoprendo la nostra fuga, cerca in ogni modo di ricondurci nell'alveo della "società civile", nel suo abbraccio "generoso"
E' ciò che accade nel film: padre e figlia sono individuati nei boschi e ricondotti a Portland, dove sono ospitati (padre e figlia divisi) in un centro apposito per essere sottoposti a esami e Test di vario genere, insomma una sorta di reinserimento programmato nella società.
Infatti la legge stabilisce che boschi e praterie sono suolo pubblico, e in quanto tali non possono
essere occupati liberamente
Quindi padre e figlia sono liberi di lasciare il Centro e viene loro assegnata una casetta, ma non si
adattano alla vita domestica e decidono di vivere in un accampamento di caravan con altri che hanno
fatto la scelta del nomadismo, per scelta o necessità.
E' una realtà libertaria e quasi zingaresca, una scelta difficile ma anche coraggiosa, e in USA sono
frequenti queste comunità sorte ai margini della società urbanizzata: ricordo un'altro film in cui una
comunità analoga di fuggiaschi, emarginati e reduci vivono nelle paludi della Louisiana.
Ma Will, il padre, non regge questa scelta: vuole veramente eclissarsi, scomparire, e riprende il suo
cammino solitario inoltrandosi nel folto dei boschi.
Thomasin, invece, ora non riesce, non vuole seguirlo.
E' struggente l'addio fra i due: lei che lo accompagna al limite della macchia, un lungo abbraccio al
padre e poi, quasi attratta da una forza irresistibile, riprende il sentiero dell'accampamento posto ai margini della città.
Belle le scene dell'accampamento precario abitato da individui e famiglie precari ma solidali, dove tutti si ritrovano ai fuochi per cucinare, parlare e cantare country al suono del banyo.
A:Ferrin
modena, 12/11/2018


                       
                                                                         

giovedì 8 novembre 2018

PERCHE' ESSERE FEMMINISTI


Zenone di Elea, filosofo dell'antica Grecia, chiede retoricamente a se stesso e a noi:
"chi vorrebbe morire senza avere fatto almeno il giro della sua prigione? ".
Io dunque, da pensionato, non faccio altro che mettere in pratica il suggerimento di Zenone: esploro
lo spazio in cui vivo.
Ieri l'altro, in una delle librerie modenesi (la Ubik) era prevista la presentazione del libro di un accademico di Unimore:
              "Diritto e (dis)parità. Dalla discriminazione di genere alla democrazia paritaria".
L'incontro della serata è il primo di tre il cui tema è: "Perché essere femministi"; il tutto organizzato con Unimore di MO/RE, Centro documentazione Donna di Modena, e con patrocinio del Comune di Modena.
Introduce la presidente del Centro documentazione Donna, Vittorina Maestroni che si dilunga (come
accade spesso in simili circostanze) in una prolissa presentazione dell'autore, accademico di Unimore,
e del presidente della Fondazione San Carlo; come in ogni "introduzione" che si rispetti, la Maestroni
infarcisce di formalità, piaggeria e auto referenzialità, ( non rinunciando a dire la sua anche sui contenuti del libro) la presentazione degli ospiti.
Finalmente l'autore del libro interviene e debutta illustrando le buone ragioni per essere femministi, pure affermando che lui si sente ed è maschio, e sciorina la serie infinita di luoghi comuni propri del
Femminismo più radicale, quelli ormai rivisti e temperati anche dagli eredi del femminismo storico.
La relazione dell'autore lambisce anche i "massimi sistemi" con un eloquio lungo, acritico  e inutilmente accademico, col quale intende omologare la rivoluzione sociale, sessuale e di genere scaturita dal '68 in poi.
Tutto è progresso afferma, e molta strada c'è ancora da fare perché maturi una vera coscienza
democratica e approdare così alla parità di genere nella nostra società.
Un applauso educato accoglie la conclusione dell'oratore, e la Maestroni invita il presidente del San
Carlo a intervenire.
A questo punto io, che ho ascoltato con insofferenza crescente una "lezione accademica", ho anche
realizzato che sono capitato nel mezzo di "democratici e progressisti" che, pure essendo reduci da ripetute catastrofi ideologiche e politiche, sono sempre arroganti: il clima è di plumbeo conformismo, da pensiero unico.
Infatti, con una certa foga, chiedo di potere intervenire perché non ritengo corretto che il tavolo della
presidenza monopolizzi la serata e non dia spazio alla platea.
Apriti cielo! Clamore in sala: i più reagiscono malamente alla mia iniziativa, e le donne, che sono la
grande maggioranza, sono le più determinate, ma infine l'autore del libro, bontà sua,  mi concede la parola.
Io mi limito a osservare che mi aspettavo fosse una donna a svolgere il tema proposto, e chiedo anzi
(perché no?) che sarebbe anche opportuno sviscerare il tema: "perché essere maschilisti", e aggiungo: per me non c'è maschilismo e femminismo, ma piuttosto femminilità e mascolinità o, meglio ancora,
donne uomini e persone, ma la mia voce già si perde nel frastuono.
Ancora clamore in sala: una voce di donna grida: "se non le interessa l'argomento può andarsene", e
io rispondo : viva la democrazia.
Ora è tornata una calma apparente: il presidente del San Carlo inizia il suo intervento e mostra più
concretezza del precedente.
Ma io sono stanco, non voglio sorbirmi un'altra ora di parole e mettere a repentaglio le mie coronarie.
Mi alzo dalla sedia e rivolto a tutti: mi dispiace ma devo lasciare "l'assemblea parrocchiale", e mi dirigo all'uscita, a respirare aria fresca.
L'insegnamento che traggo da questa mia piccola esperienza? Le donne, almeno quelle viste in questa
occasione, rivendicano e proclamano, ma infine, nei fatti, figurano sempre nelle seconde file in posizioni subordinate agli uomini, in ruoli quasi ancillari.
A.Ferrin
modena, 08/11/2018

martedì 6 novembre 2018

TEMPO



Dissipiamo
il tempo
di vivere
con pensieri
opere vane
sogni                                                                                                           
di felicità
visione carpita                                                                         
stupita
di Amore
bellezza
di mondi arcani                                   
miriamo
l'universo
che colmi
animo e mente                                                                                 
Frammenti
vitali
di uomo
tra uomini
che al tramonto
cercano quiete.
A.Ferrin
modena, 06/11/2018
                                                                     

giovedì 1 novembre 2018

INSURREZIONE UNGHERESE



E' il 1956, dal 23 ottobre al 10 novembre, e io sono in Collegio a Ferrara, nell'antica sede di via Cairoli: le giornate trascorrono nello studio e nella vita comunitaria ancora spensierata, nonostante io
sia alle prese con la prima adolescenza, con tutto quanto ciò comportasse in termini di sviluppo fisico e psichico.
Ovviamente io, come i miei compagni di studi, non mi interessavo di politica, ed ero sommariamente
informato sull'attualità nella società italiana o europea; infatti guardavamo ( e non sempre) l'unico canale TV in b/n, o coglievamo i commenti dei più grandi, e tuttavia possedevo già alcuni tratti del
carattere idealista che avrei conservato in futuro.
Si era in piena "guerra fredda" fra i due campi, occidentale e orientale, che si fronteggiavano armati fino ai denti, e che già disponevano di arsenale nucleare.
Nell'Europa Orientale controllata dalla U.R.S.S., e soggetta a regimi comunisti, quali Polonia, DDR,
Paesi in cui erano già scoppiati moti popolari di protesta, mentre la Jugoslavia, pur conservando un regime comunista, aveva preso le distanze dai regimi di obbedienza sovietica.
Avrei compiuto i 14 anni in dicembre e pertanto, ripeto, non possedevo molti elementi per valutare gli avvenimenti politici nazionali e internazionali: partecipavo emotivamente agli eventi del mondo, almeno di quelli più clamorosi, che ispiravano sentimenti di simpatia e solidarietà.
Tutto cominciò il 23 ottobre con una manifestazione studentesca sostenuta dal Circolo Petofi (Poeta eroe della rivoluzione del 1848); gli studenti rivendicavano diritti condivisibili, le voci si diffusero
rapidamente e davanti al Parlamento si ritrovarono in circa 200.000: le proteste contro il Regime
salirono di tono, e i manifestanti rivendicarono libertà per l'Ungheria e l'uscita dell'Armata Rossa che
occupava il Paese dalla fine della 2^ guerra mondiale.
La polizia aprì il fuoco sui dimostranti provocando i primi morti.
Fu l'insurrezione armata: la mia memoria focalizza i primi giorni dell'insurrezione in cui sembrò che
i rivoltosi(ai quali si erano uniti alcuni reparti dell'esercito ungherese), avessero la meglio, e infatti le forze Sovietiche mostravano di volere lasciare il Paese, ma si trattò di un inganno.
Nei pochi giorni di libertà erano stati liberati prigionieri politici e il Card.Midzenty, ripristinata la
libertà di stampa e il pluripartitismo.
Gli ungheresi festeggiavano quando, alle prime luci del 4 Novembre, i cittadini di Budapest furono
svegliati dai cingoli dei carri armati che invadevano la città e il Paese.
I sovietici impiegarono 200.000 uomini e 4000 carri armati (si disse fosse un corpo d'invasione più
potente di quello che i nazisti avevano impiegato nella "Operazione Barbarossa").
La resistenza degli ungheresi fu semplicemente eroica e commovente: noi ragazzi eravamo attenti
alle cronache radio che informavano in "tempo reale", e si trattava per lo più di radio "libere"private
o di Radio Europa libera che trasmetteva da Monaco di Baviera.
Rimasero nella memoria nomi che non potevano non affascinare sopratutto i giovani, per l'esempio
che davano di coraggio e coerenza: mi riferisco a Imre Nagy, che era già stato vittima di purghe staliniste, a Pal Maleter (Colonnello dell'esercito eroe della resistenza ai nazisti) e ad altri 1200, più oscuri protagonisti della insurrezione.
Morirono 2500 ungheresi e 750 russi, altri 1200 ungheresi furono condannati e giustiziati negli anni
successivi, e 250.000 fuggirono all'estero.
Imre Nagy e Pal Maleter furono catturati con l'inganno all'uscita dell'Ambasciata Jugoslava nella quale avevano trovato ospitalità e rifugio: non era stato rispettato il salvacondotto di Kadar.
Si trattò infine di un esito quasi scontato (con il senno di poi): l'Ungheria "doveva" appartenere al
campo comunista, e i Paesi occidentali non potevano intervenire nonostante gli accorati appelli e
invocazioni d'aiuto provenienti dagli insorti che soccombevano nell'impari lotta.

                                                                P.S.
A volte, la storia fa giustizia (spesso troppo tardi) delle falsità e nefandezze degli uomini:
*Sconfitta la Rivoluzione, il governo filo-sovietico di Kadar procedette alla restaurazione con
processi e condanne a morte.
Nel maggio '58 Imre Nagy e Pal Maleter e il giornalista Miklos Gymes furono condannati a morte: Palmiro Togliatti, il quale aveva approvato l'invasione dell'Ungheria, si espresse per la loro condanna, ma chiese che l'esecuzione fosse posticipata nel timore che l'evento pesasse negativamente nelle elezioni politiche italiane di Giugno.
Il 16 giugno i condannati furono impiccati.
Alla caduta dei regimi comunisti dell'Europa orientale negli anni 89/90, Nagy, Maleter e Gymes furono riabilitati al pari di quanti avevano partecipato alla Rivoluzione.
Venne riesumato il corpo di Nagy(il cui luogo di sepoltura era ignoto), e trasferito nel Cimitero di
Budapest.
Dopo Perestroica e Glasnost di Gorbaciov, il presidente Yeltsin si recò in Ungheria e davanti al
Parlamento ammise che l'URSS aveva sbagliato a invadere il Paese.
*Lo scoppio della rivoluzione ungherese e l'intervento russo provocarono una grande diaspora fra gli
intellettuali comunisti italiani ed europei, e anche il futuro Presidente Napolitano(il migliorista!) che aveva approvato l'invasione, in qualità di Presidente ammise di avere sbagliato.
A.Ferrin
modena, 1/11/2018

martedì 23 ottobre 2018

GIARDINO D'AUTUNNO



Tre alberi
fra siepi di bosso
foglie di ruggine
nel rorido prato,
l'anziano
infagottato
sulla panchina
una mamma
vigila il bimbo
sull'altalena
che geme
il cucciolo
solleva la zampa
sul tronco rugoso
tutt'intorno
eco lontana
di brusio diffuso.

A.Ferrin
modena, 23/10/2018

domenica 21 ottobre 2018

VIVERE NELL'OMBRA




Nietzsche scrive che "l'amore è una lotta mortale fra i sessi", e questo film, The Wife in inglese, declina questo assunto per l'ennesima volta, in questo caso grazie a due grandi attori quali sono
Glenn Close e Jonathan Pryce.
Certo fra le persone civili la lotta è incruenta, dissimulata dalle buone maniere e dall'opportunismo,
ma produce danni che possono emergere in superficie eruttando come vulcani o, come accade il più delle volte, fare "morire dentro": terreno di coltura di psicologia e psicanalisi con le loro mille teorie.
La letteratura sulla vita di coppia è sterminata, infarcita di luoghi comuni che ormai non si discutono:
"dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna", " uno dei due(la donna) deve sacrificarsi", la
donna è "l'angelo del focolare", "uomo dovrai vivere con il sudore della tua fronte" e tu donna "partorirai nel dolore".
D'altra parte, non sono le religioni, ma la stessa esperienza umana con biologia e l'evoluzionismo
a dettare e condizionare la nostra vita, mentre noi ci illudiamo di essere liberi.
Inoltre, a complicarci l'esistenza, intervengono la cultura, le sovrastrutture culturali e le ideologie, e il tutto fa sì che non si accettino i ruoli che prima erano nell'ordine naturale delle cose, e quindi le lotte
intestine tra uomini, tra donne, tra gli uni e le altre, una deriva originata dalla competizione,
dall'istinto di sopravvivenza.
Tornando a bomba, la coppia è colta nell'attimo in cui il marito (scrittore) è insignito del premio NOBEL, e nel viaggio verso Stoccolma dove gli è conferito, tra i due emerge (sopratutto nella donna) tutto il non detto nei 40 anni di unione: le frustrazioni della donna che ha sacrificato tutta se stessa
dedicandosi al marito per sostenerne le ambizioni.       
Ora è depressa e svuotata di energie, mentre il marito sembra non riconoscerne i meriti; la donna resta silenziosa in disparte, il marito, felice del successo, accentra tutte le attenzioni, e non gratifica
adeguatamente nemmeno il figlio che, a sua volta, ha intrapreso la stessa attività del padre.
Insomma tutti temi sensibili propri dei rapporti umani, della fatica di convivere nella comunità, e quindi la necessità di dipanare il groviglio di sentimenti, esigenze e urgenze.
Il marito infine muore di crisi cardiaca a Stoccolma, e la donna, coerente fino in fondo, diffida un
giornalista che vorrebbe scrivere una biografia dell'uomo non proprio ortodossa, ma forse più vera, e
lei mostra con dignità la maschera della vedovanza, con la "faccia appesa" di Madonna Addolorata.
A.Ferrin
modena,21/10/2018

giovedì 18 ottobre 2018

CASTAGNE



Non d'autunno
l'aria di primavera
nell'ottobre incipiente:
senza caligine
il sole indugia
tra fronde screziate,
nell'aria ferma
il tonfo sordo
di ricci nell'erba                                             
a mostrare
frutti maturi
da bucce irsute

A.Ferrin
modena, 18/10/2018

mercoledì 10 ottobre 2018

ZEN

                                                                     ZEN



Il monaco Eichu, in procinto di ritirarsi sulla montagna, confessa:

"Ho chiuso con le solite cose!
Che senso ha la cavezza, la briglia, per
chi si è scosso di dosso ogni artificio?"

E' una poesia zen molto bella: con poche parole svela un'anima ma noi, umanità del terzo millennio, su quale montagna possiamo salire per isolarci dal mondo?
Abbiamo antropizzato la terra in modo intensivo, non è certo quella del '400 in cui viveva quel monaco.
Non è facile esplorare nuovi sentieri, inoltrarsi in valli silenziose per raggiungere cime solitarie, o trovare quiete su pendii erbosi, cullati dal mormorio nell'aria di primavera.
A. Ferrin
modena, 10/10/2018


martedì 2 ottobre 2018

MOLESTIE SESSUALI



Che dire, non si scrive e parla che di "molestie sessuali", tema infido come sabbie mobili, da cui
sarebbe meglio starsene lontani, un tema suscettibile di indurre a malintesi ed equivoci che possono
provocare inimicizie e condanne morali inappellabili.
Di questi tempi è d'obbligo uniformarsi al "politicamente corretto", almeno nel dibattito pubblico:
per "politicamente corretto" si intende che le donne sono, in ogni caso, vittime, e gli uomini, in quanto tali, "bruti e comunque colpevoli".
C'è un'atmosfera soffocante di conformismo, di caccia alle streghe, atmosfera in cui le donne sono
assimilate (oggettivamente) a esseri non senzienti, fantocci senz'anima né volontà in balia dell'uomo, l'energumeno.
Il tema dibattuto in televisione e sui giornali vede sempre protagonisti sedicenti esperti (donne e uomini) che polemizzano, si accaniscono e accavallano le voci col risultato che l'ascoltatore assiste    a una babele: spiccano sempre vecchie e nuove femministe, alcune residuati del vecchio movimento,
che però perseverano in un dogmatismo degno di miglior causa.
Ma è singolare il fatto che mai si affronta il tema dell'educazione sessuale che dovrebbe essere, è mia opinione, impartita già nelle prime classi delle Primarie, ma questa è una scelta didattica di
matrice cattolica, che relega nel tabu, nell'ipocrisia del "non detto" il sesso e la sessualità.
Mi riferisco alla morale cattolica che quasi mai accenna alla sessualità, termine interdetto, che invece è relegato e consumato nelle comunità chiuse, nelle sagrestie e confessionali.
Pertanto, invece di gridare allo scandalo a cose fatte, sarebbe più producente informare ed educare
uomini e donne circa la fisiologia e fisiopatologia della sfera sessuale connesse agli aspetti sociali  delle relazioni umane.
Ricordo un film (credo Ceko o Polacco) in cui il corteggiamento e l'accoppiamento tra i cervi è descritto con una delicatezza che emoziona: il cervo si avvicina gradatamente alla femmina che bruca apparentemente incurante del maschio che, quasi timoroso, le è vicino, solleva una zampa anteriore con cui sfiora una delle zampe posteriori della femmina, la cerva non reagisce e il maschio ripete
questo rito finché lei sembra accettare le sue attenzioni, e infine natura e necessità biologiche conducono all'unione che permette la procreazione.
A me risulta che ancora oggi, come sempre, alla base dei rapporti sessuali fra adulti vi siano il corteggiamento e la seduzione, ma alcuni uomini, in condizioni di totale ignoranza o inadeguatezza a  padroneggiare gli istinti, cedono e agiscono le loro pulsioni con violenza, ed è ben noto che le donne sono, per costituzione fisica, destinate a soccombere (absit iniuria verbis!).
Piuttosto, per provocare una piccola riflessione, e senza volere generalizzare, direi che spesso siano le donne a "molestare" i maschietti con l'ostentazione di una prorompente, e direi quasi arrogante, arte dell'ammiccamento femminile, per cui le donne dovrebbero essere consapevoli del fatto che mentre  rivendicano a muso duro l'assoluto "diritto alla libertà di costume e ovviamente sessuale", gli uomini possono essere preda di vere tempeste ormonali.
Infine, è un affermazione quasi banale, la libertà individuale assoluta non è consentita a nessuno, siano essi uomini o donne.
Il sesso ha avuto, e ha la funzione di assicurare la sopravvivenza delle specie, e quindi anche di noi umani; sappiamo peraltro che solamente noi, rispetto agli altri esseri viventi, possediamo capacità tali  che ci consentono di utilizzare l'istinto sessuale non solo a fini riproduttivi: ne abbiamo fatto
anche un piacere ineffabile, fine a se stesso, un bene di consumo tangibile e intangibile, un bene al  quale sono interessati uomini e donne.
La società moderna non si può definire per ciò oscurantista: godiamo di molte libertà che i nostri nonni sognavano, ma forse siamo ebbri di libertà, sazi e stanchi di consumare tutto, "hic et nunc", scelta che tarpa le ali della fantasia, ci priva dei sogni, in una vita ormai senza misteri e veri oggetti di desiderio.
A.Ferrin
modena, 03/10/2018

domenica 23 settembre 2018

DERZU UZALA





E' il film di Akiro Kurosawa girato nei primi anni '70; il famoso regista era reduce da una profonda
crisi depressiva che lo aveva condotto a un tentativo di suicidio, e da ciò è scaturito probabilmente il
soggetto del film che narra una storia semplice ma piena di poesia.
Derzu Uzala è un vecchio cacciatore di etnia euroasiatica che vive solitario e libero nella Taiga siberiana: incontra una pattuglia militare zarista impegnata nell'esplorazione del territorio nel quale deve fare rilevazioni orografiche e topografiche utili per la conoscenza del vastissimo Impero russo.
Il Capitano gli chiede di fare loro da guida nel territorio sconosciuto, il cacciatore accetta , e inizia così la sua avventura alla guida del drappello di soldati.
Il film è tutto qui: da un lato i soldati rudi che devono combattere e conquistare, e Derzu Uzala che è
uomo semplice e mite, che vive in simbiosi con la natura, dove tutti gli esseri animati e inanimati sono fratelli; egli ha una visione animista della vita e del mondo in cui vive: interpella animali e
piante quasi fossero esseri senzienti, è mosso da pietà e partecipa alla loro sofferenza, certo che nella
natura risiede il destino di tutto e tutti.
Al temine della missione esplorativa dei militari, il vecchio è colpito da un'incipiente cecità, e il suo
capitano gli offre ospitalità nella sua famiglia, offerta che Derzu, inizialmente, accetta.
Ma non può vivere fra quattro mura: gli mancano la vita della Taiga, la sua tenda e la durezza della quotidianità, pervasa però di libertà, libertà che decide infine di riconquistare.
Il Capitano non può che rispettare la volontà del vecchio cacciatore e, al momento del commiato, gli regala un nuovo fucile.
L'epilogo della storia è triste.
Inoltratosi nella Taiga, Derzu Uzala è ucciso da malfattori che lo derubano del fucile.
A.Ferrin
modena. 23/9/2018

martedì 18 settembre 2018

ICAROS: A VISION



.
  
Essenzialità e creatività in questo film girato in un Paese Sudamericano, il Perù, la cui cinematografia, a torto o ragione, è considerata minore rispetto a quelle che vanno per la maggiore.
In questa pellicola hammirato un insieme fantasmagorico di immagini e invenzioni sceniche inaspettate che
hanno rapito stupito la platea; fra giochi di luci psichedeliche, visioni oniriche, dialoghi essenziali regressioni a stati di coscienza primitivi, in un habitat della foresta amazzonica.
E' un'esperienza straniante cui si sottopongono volontariamente alcuni euro-americani, detti psiconauti, amanti    del turismo "alternativo e spirituale" che si assoggettano a sciamani che propinano la "ayahuasca", pianta della    trascendenza. 
Questi turisti cultori di riti pagani, vivono in condizioni miserevoli, condividono i pagliericci la notte, si nutrono        con cibi di pura sussistenza e ingurgitano intrugli misteriosi e vomitevoli.
In ogni caso, al termine della proiezione, un applauso si è levato dal pubblico, non so se dovuto al sollievo per      la fine della pellicola, fenomeno nuovo cui non avevo assistito in passato, ma la sua ragione d'essere sfuggiva ancora alla mia comprensione.
Già all'inizio dello spettacolo, molti spettatori erano usciti alla chetichella. 
Il minuscolo Pincer del gruppo di anziane si era appisolato sulla poltrona vicina alla mia: poltrona che il cane, forse sognando un prato verde, aveva già irrorato di urina, mentre alcuni spettatori, in piedi, ululavano, latravano e ringhiavano allo schermo, e altri esagitati si abbandonavano a gesti vandalici inqualificabili: uno spettacolo orgiastico collettivo, e pensai per un attimo che tutti i presenti fossero in balia degli effetti prodotti dai riti sciamanici della lontana foresta peruviana: i fumi dei loro fuochi, le movenze arcane delle loro mani, i poteri occulti dei beveroni avevano sortito nei cittadini un risultato imprevisto: cioè di riportare alla coscienza la parte
più ancestrale e istintuale, nonché animalesca dell'esperienza umana, il tutto vissuto come gesto liberatorio.
La mia è stata suggestione di pochi attimi: ho pensato anche alla metempsicosi o trasmigrazione delle anime,      ma subito mi sono sottratto a questi pensieri deliranti. 
Fra gli attori figurava anche l'italiano Timi che abitualmente cacaglia, ma qui la sua balbuzie era accentuata. 
Infine sono uscito dalla sala e, con disagio, ho confessato alla maschera che non ce la facevo proprio... ero in  imbarazzo perché mi avevano concesso l'ingresso omaggio e mi sembrava indelicato lasciare lo spettacolo  anzitempo, insomma mi sentivo in difetto io, io che ho subito una tortura tale che al confronto il famoso letto di  Procuste...è un letto sontuoso attorniato da flabelli e odalische che dispensano piacere.
A. Ferrin
modena, 18/9/2018

lunedì 10 settembre 2018

La Ragazza con L'ORECCHINO DI PERLA. La Ragazza dei TULIPANI



Ho visto i due film "La ragazza con l'orecchino di perla" e "La ragazza dei tulipani", la protagonista
assoluta nelle due opere è L'Olanda del '600, il suo Secolo D'oro.
La ragazza con l'orecchino di perla, è un quadro fra i più noti di Jan Vermeer; il pittore di Delft fissa sulla tela la sua fantesca, una ragazza bellissima che indossa un'orecchino di perla, ed è colta proprio
nell'attimo in cui rivolge lo sguardo stupito al pittore che la ritrae.
Avevo già ammirato il quadro nell'inverno 66/67 in Olanda, e rivisto a Bologna nel 2014 a Palazzo
Fava, poi ho visto anche il film che narra( con suggestione) la nascita del quadro, film in cui la fantesca è interpretata da Scarlett Johansson.
Devo dire che non ci si stancherebbe di contemplare il quadro (ma a Bologna l'afflusso alla mostra
era tale che non ci si poteva fermare).
Nel ritratto di Vermeer lo sguardo della fantesca è di grande bellezza e mistero, impreziositi ancora di più dall'interpretazione e fascino della stessa Scarlett, causa di una vera sindrome di Stendhal nello spettatore.
Nella "Ragazza dei tulipani" non  c'è la storia di un quadro, essendo la pittura e il pittore solamente
il pretesto per raccontare la storia passionale di un pittore minore che deve ritrarre la la moglie del
committente, la quale se ne innamora e ordisce un disegno, anzi un vero garbuglio ai danni del marito
Ma i veri protagonisti sono i tulipani, un fiore scoperto in oriente e introdotto in Olanda da mercanti locali: è un fiore che va subito a ruba, e acquista valore così rapidamente che i suoi bulbi sono tesaurizzati come beni di investimento.
Nasce così la famosa "Bolla dei tulipani", citata nella storia dell'economia, fra le Bolle più famose della modernità causata dall'eccesso di produzione rispetto alla domanda.
Ciò produsse la crisi gravissima dell'economia Olandese, una "depressione" che interessò anche Paesi limitrofi, come accadrà con quella del 1929 che coinvolgerà il mondo intero.
Comune ai due film è la rappresentazione dell'Olanda nel Secolo D'Oro, i suoi costumi e la vita dove dominano i canali, ma in ogni caso preferisco la Ragazza con l'orecchino di perla, in quanto vi si nota di più la mano della cinematografia inglese.
A.Ferrin
modena, 10/9/2018.

venerdì 7 settembre 2018

KATIUSCIA



Questa mattina mi sono recato nell'antico Ospedale Estense a ritirare il referto di un esame di laboratorio; all'uscita ho notato una donna che aspirava da una sigaretta elettronica, ed era impossibile
non notarla: longilinea, bionda, pelle diafana e occhi celesti.
Ho ceduto alla tentazione di farmi gli affari altrui, e ho apostrofato così la donna: non riesce proprio a
farne a meno, vero? E lei, ma è fumo elettronico, e mi ha chiarito in cosa consiste questo famoso fumo, surrogato del tabacco, ora molto di moda.
Ho avuto la felice intuizione, ma per lei è un vezzo, ho chiesto, un gesto quasi rituale immagino, e lei ha confermato: il suo italiano è buono ma tradiva alcune inflessioni esotiche, e lei conferma di essere russa, e questo ha dato la stura alla mia curiosità che lei ha soddisfatto con naturalezza e generosa disponibilità al dialogo.
In piedi, in via Vittorio Veneto, abbiamo conversato dell'Impero zarista, della zarina Caterina la Grande, di San Pietroburgo, dei Sovietici, di Putin, di Ucraina e Crimea, della transizione
dall'URSS alla Russia di oggi, della grande letteratura russa :Tolstoj, Dostoeskij, Gogol.
Mi è piaciuto di lei, il suo nome è Caterina, la schiettezza, e ciò che ha detto del suo Paese, anche se,
(ma questo non è un delitto) mi è parsa un poco nazionalista; d'altra parte i cittadini delle grandi
Potenze sono sempre orgogliosi e quindi reticenti nella critica.
Al termine della conversazione, Katiuscia mi ha offerto un passaggio verso casa, le ho dato il mio
biglietto da visita, lei ha scritto su un pezzo di carta la sua mail ma, rientrato in casa mi sono accorto
di avere smarrito il biglietto con il suo indirizzo!
A.Ferrin
modena, 7/9/2018


giovedì 6 settembre 2018

AL SOLE



Al sole che declina
vecchi incerti
giovani audaci
gli uni degli altri
ignari
Bambini giocosi
come cuccioli
adulti austeri
in corazze                                                                                       
quasi cupe
foreste
Sono già di rosa
le pietre antiche
ultimi passeri
tornano al nido
Così viviamo
la terra feconda
d'amore oblio
e promesse.                                                     
Cammina
con me                                           
c'è ancora luce.
A.Ferrin
modena, 6/9/2018

venerdì 24 agosto 2018

POLESINE



Da Porto Garibaldi, con la Romea sfiorarono l'Abbazia di Pomposa, Bosco Mesola e Valle Bertuzzi, poi per antichi terreni bonificati raggiunsero Goro e la Sacca omonima, e seguendo la strada d'argine di questo ramo del Po, ecco Gorino, dove il corso del fiume si frastaglia in rami minori che lasciano acque in lanche e mortizze, tra lingue di terra e dune sabbiose.                                                            La batana era tirata a secco sull'estrema lingua di terra, e Berto, aiutato da Giulia, la spinse in acqua:  egli portava a spalla l'unico remo utilizzato per la voga alla veneziana, si staccò dalla riva e costeggiò la sacca fino al Faro di Goro.
Giulia, silenziosa, sedeva a prua con la mano nell'acqua verdastra che sciabordava nascondendo il fondo alla profondità di soli 60 cm: l'acqua ora era  limacciosa, ora cupa di alghe e cespugli.
L'acqua salmastra, sorvolata da gabbiani felici, era increspata e tremolava per la brezza che dalla pineta svaniva sul mare.
La donna fissava lo sciabordio prodotto dalla sua mano: Berto le disse che la mano in acqua faceva da timone, ma lei godeva di mani o piedi immersi.
Giulia slacciò il pareo, mostrando il bikini turchese che esaltava le forme di splendida quarantenne; sembrava incurante della presenza di Berto che la osservava, ma senza darlo a vedere, che la sua bellezza lo stupiva ancora, e con piccoli tocchi del remo indirizzò la barca e penetrò nell'intrico di      cannella palustre dirigendo a Canneviè, la vecchia stazione di pesca trasformata in oasi di riposo per amanti del paesaggio vallivo e dell'osservazione della fauna.
La batana procedeva lenta tra cannella, salicornia e giunchi: l'odore salmastro e di marcita divenne    pungente, e al crepitio delle erbe si levavano in volo garzette, qualche airone, e immobile, più oltre,
era la visione rara di un Cavaliere d'Italia, ritto su una minuscola barena.
Elegantissimo e guardingo affondava il becco nell'acqua, e Berto lo indicò a Giulia che posò lo sguardo sull'uccello e sorrise, e allora l'uomo ricordò che il Cavaliere d'Italia, (al pari di altri animali)
corteggia la sua compagna con un rituale delicatissimo e romantico, comportamento esemplare per gli umani che spesso non usano gli stessi riguardi negli approcci amorosi.
Approdarono all'isolotto di Canneviè: in passato era stata una stazione di lavorieri addetti alla cattura e lavorazione delle anguille, e poi convertita in ristorante e albergo; l'orizzonte profondo, ormai sfumava in gradazioni di rosa che, da valli e lagune zittite, stingeva sul mare senza luce.
Nella nuova Canneviè non c'era traccia di lavorieri, ma era ancora isolata in una rete di barene erbose unite da passerelle rudimentali, a volte munite di pontili d'attracco, e l'insieme di questa fusione fra
terre e acque era suggestiva, quasi una tela finemente ricamata: le passerelle e il perimetro del locale  erano segnate da torce anti zanzare che infestano da sempre queste lagune.
L'uomo e la donna cenarono: l'atmosfera nel locale era propizia alla rimozione di ogni timore e sopiva tensioni e crucci della vita quotidiana a Ferrara.
Avevano stabilito di dormire a Canneviè, e il mattino dopo fare a ritroso la vogata per Gorino.
Alcuni turisti provarono ad animare la serata, ma non c'era un istrione degno di questo nome, e allora  le voci si affievolirono, e i pur generosi tentativi si ridussero a più miti pretese: un vecchio piano
verticale era sulla pedana e si offriva a suonatori avventizi e coraggiosi.
Uno dei presenti si avvicinò, timidamente e con circospezione, allo strumento, ma subito, uomini e
donne, lo spronarono battendo le mani; l'uomo, ormai a suo agio di fronte alla tastiera, cercò il La.
Il pianista, condiscendente e con un pizzico di sussiego, strimpellò vecchie canzoni e brani classici, nei quali alcuni si cullavano e cedevano alla nostalgia, mentre altri abbandonarono la sala diretti alle camere.
Anche Berto e Giulia dopo alcuni brani si alzarono e, rivolto un sorriso al pianista, si avvicinarono ai vetri, notando subito che le torce si stavano spegnendo, e la loro luce sempre più fioca allungava le ombre della notte.
I due erano sereni e si tenevano per mano: da quanto non accadeva? Forse da quando frequentavano i
Lidi nei lontani anni 60? Si erano invaghiti l'uno dell'altra nei giorni assolati di luglio, con i balli lenti e il rito giocoso della seduzione che poi finiva sempre fra le dune del litorale Acciaioli.
Adesso erano distesi sul letto, certamente stremati dall'intensa giornata, ma non dimentichi di quel passato, e non resistettero al desiderio: si scambiarono effusioni dolcissime e si rividero giovani, lei
nel pieno fulgore della giovinezza, i capelli biondo cenere, gli occhi grandi e stupiti, lui quando credeva ancora che tutto fosse senza fine: nutrivano fiducia nelle promesse di gioia e felicità.
Chiusero gli occhi che lei era abbarbicata a lui come rampicante o, come diceva Berto, un ragnetto.
Furono risvegliati al mattino dal clamore della natura e dal sole che entrava prepotente dai vetri; l'uomo scese dal letto e osservò Giulia che sembrava assopita, ma era solo civettuola e indolente, le
si avvicinò sfiorandole bocca e palpebre con le labbra.
Erano in sala per la colazione: dalle finestre spalancate irrompeva il chiasso dei gabbiani e l'aria di erbe e salsedine; l'uomo e la donna, ristorati dal sonno e dalla colazione, uscirono da Canneviè (Berto con il suo remo in spalla), e raggiunsero il pontile a riprendere la batana.
Il cielo era terso, la leggera brezza mattutina penetrava nelle strette vie d'acqua tra la vegetazione
verde oro che ondeggiava e frusciava; i due erano catturati dalla bellezza e serenità di una natura che
pare immobile, ma che invece brulica di vita, e dove le acque del grande Delta recano da lontano, senza fine, limo e sedimenti che fanno terra del mare.
Giunsero stanchi nel porticciolo di Gorino, ormeggiarono la barca e Berto assicurò il suo remo sul tetto della vettura, quindi decisero di pranzare alla Uspa, il locale più schietto, e forse l'ultimo, nella
lingua di terra, più a sud del Delta, che si distende nell'Adriatico.
Camminarono sulla nuova terra di polesine sperando di avvicinarsi al vecchio faro, ma il percorso
risultò impervio e infido; ritornarono sui loro passi e salirono in macchina per fare ritorno a Ferrara.
Nel viaggio verso Ferrara, Berto e Giulia furono di poche parole; era scemata la tensione positiva dell'aspettativa all'andata, nonché la lusinga delle ore trascorse insieme: erano oppressi da pensieri molesti legati alla realtà che non amavano.
Berto chiese a Giulia: a che ora abbiamo appuntamento con gli avvocati? E lei: domani alle undici.
A.Ferrin
modena, 27/08/2018

mercoledì 22 agosto 2018

IL MATRIMONIO DI LORNA




E' un film dei fratelli Dardenne, visto ieri sera sul Canale 23 che di solito trasmette documentari di storia e di scienza: ho visto altri film dei Dardenne, sempre interessanti, quasi film di Culto.
In questo è narrato l'ambiente dell'immigrazione clandestina in Belgio, e dei matrimoni combinati in
quella società tra immigrati regolari e irregolari.
La protagonista è l'albanese Arta Dobroshi che ha il ruolo di Lorna: è bravissima, di un'espressività
intensa e non meno bravi sono i suoi comprimari.
Anche Lorna cerca scorciatoie per ottenere la Cittadinanza, e così sposa un giovane belga già tossico  e disperato, Claudy.
La donna è ormai preda di delinquenti i quali, dietro compenso, le propongono il matrimonio con un
immigrato russo, ma ciò è possibile solamente se interviene la morte del marito Claudy appena sposato, e la cosa è plausibile in quanto il marito rischia sempre più la morte per overdose.
Lorna e il marito vivono la loro unione tra le continue crisi di astinenza di lui, con le sue disperate richieste d'aiuto alla moglie, e lei vittima delle pressioni sempre più esplicite e minacciose della banda.
Lorna avverte, così crede, i sintomi di una incipiente gravidanza (si è concessa per pietà a Claudy nel
corso di una delle sue ultime crisi); in ospedale confermano la gravidanza e le chiedono se vuole abortire: in un primo tempo lei acconsente, ma subito dopo fugge dall'ospedale.
Quindi si apprende della morte di Claudy per overdose; la polizia, dati i precedenti, avvalla questa
versione, invece Lorna intuisce che suo marito è stato ucciso.
L'epilogo mostra la crisi profonda di Lorna che scorge un barlume di speranza nell'illusoria, o vera
gravidanza, riconosce in se la pietà per il marito ucciso, mentre i criminali capiscono che la donna è
ormai un testimone pericoloso, e pertanto decidono di sopprimerla.
Ma Lorna riesce a sfuggire ai carnefici, fugge e attraversa un bosco di betulle in cui trova ricovero
per la notte.
Durante la fuga tra gli alberi, stanca e trafelata, instaura un dialogo toccante con il feto che ha in grembo: "non ti preoccupare, siamo quasi arrivati",  e una volta sdraiata sul pagliericcio, con la mano sul ventre: " ecco ora siamo al sicuro, riposiamo e vedrai che domani qualcuno ci aiuterà".
Il film non da certezza, io penso volutamente, circa la gravidanza di Lorna. perché vuole mostrare la
metamorfosi che avviene nella donna con la nascita in lei di nuovi sentimenti prima sconosciuti,
quali l'amore, la tenerezza e dolcezza della maternità, sentimenti scaturiti da una nuova maturità e sensibilità.
A.Ferrin
modena, 22/08/2018

sabato 11 agosto 2018

ANIMALE SOCIALE




L'uomo è un'animale sociale, e non è un'affermazione arbitraria o cervellotica; lo affermava oltre 2300 anni fa Aristotele, ben prima che la "cultura" sostenesse il primato e la superiorità dell'uomo nella natura, cioè prima che le religioni monoteiste creassero un Pantheon dominato dal genere umano, prima che l'uomo si spogliasse con presunzione dei suoi tratti animaleschi per deificarsi o farsi deificare.
L'Umanità così si è allontanata dalle sue radici, e la sua filosofia non viene a capo di nulla, rumina
all'infinito la stessa materia senza fornire risposte alle domande di sempre, domande sulle quali si arrovella e si agita come gli insetti di un termitaio nel loro compito vitale ma di orizzonte limitato. 
Quindi sono un essere umano parte del regno animale più evoluto, forse, nella scala degli esseri viventi, ma con gli stessi bisogni di vivere con gli altri nella natura per compiere il destino comune.
L'umiltà non è fra le nostre virtù: il nostro sguardo è rivolto al futuro, pur sospettando che questo futuro finisce in polvere, ma non dobbiamo pensarci troppo, pena la paralisi delle energie creative.
Siamo spinti da un'istintiva "coazione a ripetere"che ci fa perpetuare gesti e modelli di un passato remoto.
Invidio i credenti, che siano essi cristiani, musulmani e di ogni altro credo, monoteista o politeista.  Sono tutti più felici (o credono di esserlo) di chi non ha speranza.
A.Ferrin
modena, 11/08/2018

venerdì 3 agosto 2018

LA POLVERIERA



L'uomo scendeva a piccoli passi dall'alpeggio percorrendo il tratturo disseminato di bulacche, ricordi dell'ultima transumanza. Il campo era limitato da noccioleti e cespugli: alla loro ombra vacche
e vitelli godevano del venticello che dal Boscone precipita nella valle del Rio.
Il Pielungo, questo il suo nome, raggiunse infine la malga dove Irene stantuffava con la zangola, e Tugnin, intento alla caldaia, riordinava sulla panca le fuscelle per la ricotta nuova .
Si salutarono con i suoni gutturali dei montanari del Versurone, che hanno modi spicci e schietti, e
sedettero al tavolaccio per il rito propiziatorio con il gotto di vino rosso.
L'Irene non lasciò la zangola: era bionda e ancora bella, i molti capelli raccolti sulla nuca, un grembiule blu fissato in vita, e la pettorina allacciata al collo che faceva intravedere una camiciola azzurrina.
Non era interessata ai discorsi degli uomini perché, diceva lei, sono sempre gli stessi, pieni di  fole,
millanterie, e interrotti spesso da grugniti o moccoli.
Lei aveva accettato di sposare Tugnin non per dovere: era stato così perseverante con le sue visite, la invitava al ballo quando si vedevano in balera, allora sembrava anche timido, e questo le piaceva;
ma lei aveva sognato un'altro mondo, un bel mondo scaturito forse da fotoromanzi e da leggende di paese, ma alla fine aveva preso la strada dei più, quella segnata dalla vita, dal borgo e dalla storia di uomini e donne che devono abbandonare i sogni e accettare la realtà.
Ma a pensarci bene, l'Irene non aveva fatto grandi voli di fantasia, il suo futuro era fatto di cose semplici, e la felicità una parola così grande che, quasi per pudore, non era pronunciata, e pertanto si
era abbandonata al flusso della vita come acqua placata che procede tra sponde sicure.
Pielungo aveva già lasciata la malga che il sole declinava oltre il Cimone, mentre Tugnin, paziente,
incitava le vacche nello stabbio e queste, mansuete, una a una, entravano nel recinto; sedette sul
bordo dell'abbeveratoio, scrutò il pendio che digrada nella valle e notò che l'erba medica era matura per  lo sfalcio e la fienagione.
Rimirò l'altro versante della valle dove il bosco si ombreggiava sempre più e mentre contemplava stupito, si rivide sulle colline del basso Friuli, nei primi anni'60, proprio nel paesaggio ameno di Fanna.
La lunga colonna militare, con armamenti e vettovaglie, aveva raggiunto da Treviso il Fiume Tagliamento dove, tra Fanna, Maniago e Spilimbergo, il Reggimento occupò una vasta radura in cui si fissarono le tende e i servizi necessari alla truppa: cucine da campo, comando e stazione radio, la fureria con il deposito viveri, la santabarbara, le tende più ampie con brandine da campo, docce rudimentali ma funzionali, e le latrine alla turca scavate nella terra del sottobosco.
Erano ricordi che gli appartenevano, belli perché di gioventù, dove anche disagi e fatiche sapevano d'avventura, ma si era in piena "guerra fredda"e, nonostante oltre la metà dell' Esercito fosse schierato a ridosso della vicina frontiera che allora separava l'Italia dal Patto di Varsavia, il grosso della truppa
non avvertiva il clima d'allarme che filtrava da cronache giornalistiche, o da mezze frasi sfuggite a Graduati e Ufficiali.
I giorni trascorrevano in addestramento, nelle opere di migliorie al campo e osservanza delle regole di vita comune; non mancavano lunghe ore di ozio nelle ore più afose, e in ogni caso la  disciplina di caserma era così poco ferrea che i coscritti vivevano tutto con leggerezza, quasi fossero in colonia o
in un campo di boy scout: anche i pasti delle cucine da campo, somministrati nelle gavette, erano più appetitosi che in caserma, anche se addizionati (come si sospettava) del solito bromuro.
E di sera, finalmente, tutti in libera uscita per raggiungere Fanna e la trattoria più vicina!
Questo esercizio di memoria riportò alla mente di Tugnin le guardie armate cui era comandato di notte a una delle molte polveriere e depositi d'armi di cui era disseminato il Friuli, terra trasformata in servitù militare: il turno di guardia si svolgeva in tenuta da combattimento, con anfibi, elmetto e
giberne, armati di MAB con colpo in canna, e rispettando procedure di sicurezza molto rigide.
Ripensò quindi alle ore interminabili in garitta a scrutare un tratto di perimetro della polveriera, vigile
a rumori e fruscii, attento a non cadere in sonno: la ronda armata con l'ufficiale di picchetto transitava ogni ora per controllare l'efficienza del servizio.
Solo in seguito, ritornato alla vita civile, Tugnin aveva letto "Il deserto dei Tartari" di Buzzati, e vi aveva riconosciuti come propri, i sentimenti del Ten. Drogo: il senso di solitudine, l'attesa senza fine, lo spaesamento nel deserto fisico e dell'anima.
In quel periodo accadde l'incidente, ovvero il fattaccio.
Un Ufficiale, al comando di una ronda armata, avvicinatosi nel buio al posto di guardia, non obbedì all'alt (ripetuto tre volte) del soldato, né rispose alla sua richiesta della parola d'ordine, per cui quello sparò colpendolo a morte.
L'Ufficiale voleva mettere alla prova la professionalità del soldato? Nulla si seppe al riguardo, ma il soldato dimostrò comunque, e suo malgrado, di essere ben addestrato; poi ci fu chi ipotizzò che si  fosse trattato di un perfetto e premeditato suicidio .
In ogni caso, quell'Ufficiale fu il solo caduto sul fronte orientale d'Italia, vittima però di "fuoco amico", nella guerra temuta e mai combattuta dai soldati di Leva nel '64.
A.Ferrin
modena, 03/08/2018

martedì 31 luglio 2018

L'ULTIMO DEI NEURONI





Periodicamente, senza averli richiesti, trovo nella posta comunicati di una "Lega Anti-Predazione Organi", che si batte contro l'espianto organi "a cuore battente" da pazienti terminali , quindi contro ogni abuso in materia; in altri termini questi pensano che l'espianto organi dovrebbe essere lecito
solamente quando eseguito "da cadavere".
Inutile sottolineare che l'argomento riveste un'importanza capitale per la morale e l'etica legate al fine
vita in malattie terminali, e al rischio che si pratichino forme surrettizie di eutanasia.
Il comunicato odierno prende lo spunto dalla morte, quasi imprevista, di Sergio Marchionne il grande manager, prima dichiarato "morto cerebrale", e poi deceduto per arresto cardiaco: la Lega suddetta
denuncia l'ennesimo abuso di medici e strutture sanitarie che da un lato, nel caso di "poveri cristi", farebbero coincidere morte cerebrale con morte tout court, e autorizzerebbero così l'espianto d'organi anche a cuore battente, mentre per i pazienti importanti si attende il definitivo arresto cardiaco.
Io sono per una morte naturale, il più possibile naturale, non sono per l'accanimento terapeutico, sono
favorevole al trapianto organi da cadavere (è l'ultima cosa decente e altruista che posso fare per il mio prossimo).
Pertanto vorrei che il mio cuore spossato si fermasse quando, e se non ne può più, e invece, la prospettiva di vedermi disteso sul tavolo autoptico, mentre qualche neurone scorrazza ancora smarrito ma libero nella materia grigia alla ricerca disperata di sinapsi provvidenziali, ecco, questa è una
cosa che mi angoscia non poco, poi noto che il tavolo dove sono disteso è attorniato da più chirurghi che con i ferri del mestiere già si apprestano a sezionare e disputarsi pezzi del mio corpo.
Ma io sono impotente, mentre il mio ultimo neurone può solamente protestare inascoltato: aiuto, sono ancora vivo, assassini!
A.Ferrin
modena, 31/7/2018

Questo Post ha 3 anni, ma lo ripubblico perché il tema è sempre attuale.
17/11/2021

giovedì 26 luglio 2018

COMUNICARE




Chi di noi non ha provato quanto sia difficile "comunicare" con i propri simili? Esistono mille modi per definire l'incomunicabilità ovvero la difficoltà di relazionarsi con il prossimo; è paradossale che ciò avvenga proprio in tempi di connessione totale, grazie ai mezzi tecnologici sempre più sofisticati di cui possiamo disporre.
Ma il paradosso è apparente: infatti, in realtà non comunichiamo, viviamo isolati in una bolla di vuoto pneumatico; se osserviamo il lavoro moderno, notiamo che l'uomo e la donna sono in genere seduti davanti al p.c., si servono di banche dati, testi, calcoli e format pronti all'uso, i colleghi di lavoro (anche di postazione vicina) dialogano via web, nessuno usa la scrittura manuale, e non
parliamo della vita extra-lavoro.
Qui la comunicazione (chiamiamola pure così) è affollata di email, facebook, faccine, twitter, chat, watsapp,  instagram, msg, sempre più essenziali e criptici, e poi le comunicazioni vocali o messaggi che informano su tutto e di tutto, anche delle inezie e ovunque, al ristorante, a passeggio, in viaggio, in famiglia, a letto e al cesso, dobbiamo forse informare tutti di tutto, quasi dobbiamo monitorare la
nostra vita per testimoniare che siamo vivi!
Quante volte ci siamo accorti che il nostro interlocutore non è attento a quello che diciamo e copre
la nostra voce perché spinto dall'urgenza di dire la sua?
Un'immagine per me molesta è quella di una famiglia o gruppi seduti a un tavolo da pranzo in casa propria o al ristorante e in ogni occasione di convivialità, in cui tutti si isolano nell'attività solipsista con il proprio cellulare e, massime, quando nella penombra di cinema, teatri e chiese si accendono,
come fuochi fatui, i loro schermi.
Quindi sovrabbondanza di contatti futili e dispersivi e scarsità di vera condivisione di idee, visioni e
sentimenti, forse siamo ormai incapaci di trasmettere noi stessi e di ricevere a nostra volta dal prossimo, o forse abbiamo dimenticato lo schema più semplice che è alla base delle relazioni umane: sincera disponibilità all'ascolto--elaborazione del pensiero--risposta.
La comunicazione, però, deve essere necessariamente bi-direzionale, a due vie, perché in assenza di uno scambio paritario non può esserci vero dialogo: se il mio interlocutore loda la mia capacità di ascolto, mi preoccupo e sospetto che egli parli troppo e io troppo poco.
A.Ferrin
modena, 26/7/2018

martedì 24 luglio 2018

I LAZZARETTI DEL MARE



Ho letto oggi dei "lazzaretti del mare"; le navi, i vapori, i piroscafi che solcavano i mari da fine '800 agli anni 30 del '900, si possono ben definire lazzaretti perché in quegli anni circa venti milioni di italiani attraversarono l'Oceano diretti alle Americhe: erano spesso  analfabeti che fuggivano la miseria sognando la "merica", e portavano come bagaglio le malattie endemiche della povertà, o le  contraevano nella promiscuità (colera e difterite) durante il viaggio, stipati nella classe dei miserabili.
Partivano dalle regioni più povere, non solo del sud, in condizioni di estrema miseria, insidiati da truffatori già prima di imbarcarsi, e accadeva che poi fossero respinti dai Paesi in cui erano diretti, o era rifiutato l'attracco alle navi che a volte erano prese a cannonate, come accadde in Sud-America,
o quando giunti a Ellis Island a New York, erano sottoposti a una severa selezione, quindi  tenuti in quarantena e poi, quando inidonei, rimandati in Italia, insomma sempre umiliazioni indescrivibili, e commuovono le poche immagini del tempo dove bambini, donne e uomini alla rinfusa bivaccano in
coperta.
Le traversate oceaniche, per le condizioni estreme in cui avvenivano, provocavano  numerose vittime, e i loro corpi erano gettati in mare nottetempo, realtà questa che evoca, fatte le debite proporzioni, anche la "tratta degli schiavi" neri
Sono storie di ieri, ma anche di oggi, quasi le cronache che leggiamo oggi dei temerari viaggi di chi fugge da conflitti e miseria per approdare in terre più sicure, e oggi come allora mettono in crisi chi
li accoglie, o dovrebbe accoglierli.
Oggi come ieri gli uomini sono divisi tra quelli che sfruttano e lucrano sui nuovi arrivati, e quelli che,
forse in buona fede, si comportano da buoni samaritani, attingendo però agli aiuti pubblici.
Ma ciò che più indigna è la cagnara degli ipocriti e dei moralisti che urlano, giudicano e non hanno
memoria del passato, del destino comune dell'umanità: un destino non glorioso ma triste.
A.Ferrin
modena, 25/7/2018

mercoledì 18 luglio 2018

OMOLOGAZIONE


Ricordo un famoso dibattito dei primi anni '70 in cui molti intellettuali fra i più importanti parlavano e scrivevano del pericolo dell'omologazione culturale e sociale indotta nei vari strati sociali dal consumismo.
La "provocazione", chiamiamola così, partì da Pasolini, conoscitore delle borgate romane, e vi parteciparono Moravia, Arbasino, Montanelli e altri che non ricordo, e se ne dava la colpa al
"sistema capitalistico" che certamente si basa sul mercato, sulla logica di mercato e sulla produttività: sempre più beni di consumo immessi nel mercato e consumatori sempre più presi dalla febbre del
consumismo, sedotti dalla pubblicità e dal desiderio di emulare i propri simili.
Ma eravamo solo agli inizi del fenomeno, poi iniziarono ricorrenti crisi economiche con inflazione stagnazione e stagflazione, le varie depressioni e la crisi energetica,  l'eccessiva produttività con
la saturazione dei mercati e la realtà dolorosa dei licenziamenti, "ristrutturazioni" e chiusure aziendali
per giungere infine al precariato diffuso e all'aumento di povertà.
E ci dicono che tutto ciò è ineluttabile, perché è proprio del sistema capitalistico il quale, con la ricchezza, produce anche miseria, modificando il livello sociale dei cittadini, acutizzando così la
naturale competizione tra gli uomini.
Quindi ci fanno intendere che viviamo nel migliore dei Sistemi possibili, e portano a esempio il
fallimento dell'esperienza Sovietica, della sua economia socialista e collettivista, un sogno che aveva
affascinato generazioni dell'otto/novecento.
Comunque, tornando all'omologazione, siamo stati tutti (chi più chi meno) contaminati dalle mode
e dal luccichio della pubblicità; io per esempio, avvertivo la necessità di un contenitore per le
cianfrusaglie che si portano nei piccoli spostamenti o a passeggio, come portafogli, occhiali da lettura, chiavi, giornale o un libro, ma non volevo utilizzare il famoso borsello indossato dagli uomini negli anni 70/80, poi, per puro caso, ho visto in televisione l'economista Cottarelli che entrava a
piedi al Palazzo del Quirinale, trascinando un trolley e con uno zainetto a tracolla: un'immagine del giovanilismo e dinamismo richiesti dalla pubblicità.
Ecco l'idea! Ho cercato e trovato lo zainetto tutto soddisfatto, accorgendomi però subito, che la mia idea non era particolarmente originale: le strade erano già piene di giovani e meno giovani che
avevano lo zainetto a tracolla ...
Un'altro piccolo esempio di omologazione culturale e modaiola è quello dei tatuaggi...
ero piccolo quando guardavamo i film sui pellerossa (o nativi americani) e sui "selvaggi" delle
foreste africane, tutti tatuati di simboli e disegni colorati, che eseguivano le danze tribali tra il rullio di tamburi con i loro Totem e Idoli: lo spettacolo era affascinante... adesso è un'usanza diffusissima fra uomini e donne, giovani e meno giovani: sono i cosiddetti selvaggi che hanno precorso i tempi, o
siamo noi moderni a recuperare simboli antichi, o a regredire?
A.Ferrin
modena, 18/7/2018

martedì 17 luglio 2018

GINOCIDIO & ANDROCIDIO


Oscure minacce di maschi NGM valicano mari e monti per insidiare tenere fanciulle che, al riparo di
cordoni sanitari, fuggono la violenza predatoria degli stessi maschi (così si dice) che attentano alla loro illibatezza.
Le autorità hanno fatto di tutto: vietare la pubblicità che utilizza e strumentalizza il corpo della donna, imporre a tutte di coprirsi con il burka che si può smettere solo fra le mura domestiche, di mascherare anche la loro voce che può evocare nei maschi il canto di Sirena e la dolcezza femminile, la sua femminilità e le fantasie sessuali, ma sembra tutto inutile: c'è sempre qualche pazzo che, spinto dalla
tempesta ormonale, vuole curiosare ed escogita ogni mezzo per violare l'intimità delle donne.
Queste ultime dal canto loro, sempre più insofferenti della clausura "talebana" imposta dall'autorità codina e repressa, fanno affiorare un tam tam di mugugni e proteste sempre più invasive che minano le basi della società.
Infine il movimento delle donne, sempre più potente di quello maschile, ottiene nuove norme cui dovranno conformarsi tutti, donne e uomini: si tratta di un nuovo costume pubblico rivoluzionario.
I più temono che ci si avvii a una forma di società ginecocratica che ripristini usi e costumi di un
passato leggendario: le donne sanno da sempre di possedere un potere vero e intangibile e non avvertono la necessità di forme esteriori che lo dimostrino; una parte degli uomini teme di perdere i 
pochi residui simboli del potere, l'altra parte invece è felice di privarsi di poteri che sono di facciata,
privi di contenuti. E' meglio, affermano, delegare anche formalmente i cosiddetti poteri del vecchio
"pater familias" alla donna, e che se la sbrighi lei.
D'altra parte è ormai risolto il problema della sopravvivenza della specie grazie agli sviluppi della scienza con la "fecondazione in vitro- assistita-artificiale-banche del seme-ovuli congelati- maternità 
e paternità surrogate- e le diavolerie della manipolazione genetica", tecniche sofisticate che forse
annichiliranno l'immagine di padre e madre, quelle che abbiamo conosciuto. 

Comunque la Comunità, in attesa dei futuribili sviluppi, ha stilato il nuovo Codice di Comportamento che prevede:

1) Gli uomini sessualmente attivi devono indossare una cintura di castità rimovibile nei tempi modi e
    luoghi previsti dal regolamento qui allegato, e una celata sugli occhi.
    Una commissione composta di sole donne valuta e delibera circa la congruità del percorso di 
    rieducazione che gli uomini compiono nella Comunità.
2) Gli uomini sessualmente attivi "liberi", ma sempre dotati di cintura di castità, dovranno coabitare
    in edifici appositi in attesa di essere prescelti da donne interessate, le quali però deterranno sempre      la chiave della cintura; naturalmente questi uomini godranno di un trattamento privilegiato per la        cura del proprio corpo, circondati da agi e confortati da distrazioni esclusive.
3) Le donne potranno circolare liberamente senza sottostare a limiti riguardanti la propria libertà
    sessuale e di costume.
4) Le donne che avvertissero il desiderio di una rimpatriata con l'antico maschio, potranno accedere,
    nei modi previsti, ai centri residenziali di cui sopra per effettuare la scelta del maschio "usa e getta"
5) I Ministri di culto (di ogni culto) potranno esercitare la loro missione pubblica previa ablazione dei "gioielli" 
6) La natalità (e quindi la sessualità) è regolata e protetta unicamente nell'interesse della Specie, della
sua sopravvivenza, e la Comunità ne tutela sviluppo e felicità.
7) La Comunità rispetta le scelte sessuali dei cittadini: femmine, maschi omosessuali e transgender, 
ma nel rispetto dell'altrui libertà; è inflessibile e severissima nella repressione della pedofilia
8) Le donne potranno esprimere liberamente la propria affettività con le loro simili, con i propri          cuccioli o quelli di cani e gatti.
9) E' vietata severamente ogni forma di conflittualità e rivendicazione di Genere, pregiudizievole per
il mantenimento della pace sociale.

Questa normativa è formulata nell'interesse superiore della Comunità, del suo equilibrio, per una  serena convivenza, e al fine di estirpare negli uomini la mala pianta del Ginocidio.
Si ricorda che molte donne (ora gli uomini sono troppo depressi) hanno mostrato perplessità
circa il suddetto Codice: si teme infatti che esso sia troppo severo, che cioè, estirpato il Ginocidio,
si affermi l'Androcidio come nuova efferatezza.
A.Ferrin
modena, 17/7/2018