Rileggo una delle opere di Primo Levi: "La Chiave a Stella". Sapevo che lo scrittore era un tecnico esperto di chimica industriale quindi operatore su impianti tecnologicamente avanzati, insomma ho fra le mani uno dei rari esempi di letteratura industriale. La cosa mi sorprende, ma d'altra parte sappiamo che la scuola italiana offre preferibilmente sbocchi professionali umanistici. L'occasione mi è utile perché nei lontani anni '60, in attesa di orientarmi nelle mie scelte di lavoro, avevo partecipato alla campagna saccarifera estiva in uno dei tanti zuccherifici dove si lavoravano le barbabietole di cui la Provincia di Ferrara era grande produttrice, quindi accettai di entrare nella Montecatini di Ferrara come operaio chimico. La Montecatini, dove già erano mio padre e mio fratello, era un grande Polo della chimica in cui, partendo da petrolio e metano, si producevano prodotti di sintesi. Pertanto leggere Levi che scrive di stabilimenti fatti di tubature e autoclavi, torri di distillazione o esterificazione, scambiatori, catalizzatori, gasometri e di complessa carpenteria, nonché di flange, pompe e varia componentistica meccanica e reazioni chimiche, mi riporta alla memoria l'esperienza lavorativa giovanile. Alla Montecatini di Ferrara, e in seguito alla Sandoz di Basilea, debbo la scoperta della cultura tecnico-industriale, ovvero l'industria e la tecnologia che consentono la vita che conduciamo. Ecco allora che rivivo il processo di apprendimento di allora, anche se "La chiave a stella" menzionata da Levi è l'utensile più elementare che simbolizza però un processo molto più complesso e straordinario. Infine con la conoscenza del mondo dell'industria mi accorgevo della carenza della nostra cultura troppo incentrata su lettere e filosofia, sulla teoria e pertanto molto astratta, lontana dalla concretezza della vita reale. Ricordo in particolare il lavoro alla Montecatini. L'esperienza di lavoro precedente è quella di via Arginone, ma erano i piccoli lavori che tenevano impegnati i ragazzini durante le vacanze; prima, a Ferrara in via Mazzini, vicino alla Sinagoga, in un negozio rivendita di Olio, dove facevo le consegne a domicilio, poi in una macelleria equina all'inizio di via Foro Boario con le stesse mansioni, e infine presso un falegname di Via Argine Ducale come garzone di bottega. Qui facevo apprendistato: lucidavo i bauli da corredo per le ragazze da sposa (anche in casa nostra ce n'era sempre uno pronto da riempire per le mie sorelle), ma lucidavo anche le casse da morto con tintura di noce e olio di gomito, casse che allora fabbricava anche il semplice falegname. Quindi la Montecatini con il corso di chimica, in aula e laboratorio, di preparazione al lavoro. Poi l'inizio dell'attività lavorativa nel nuovo impianto di produzione del Terital, il filato sintetico su licenza tedesca che avrebbe spopolato nel mercato tessile mondiale. Nello stesso tempo a Ferrara nasceva il Moplen, una plastica di sintesi frutto della ricerca italiana e che procurò il Nobel della chimica al suo inventore Giulio Natta. Ricordo l'avviamento del Terital, un impianto colossale di 4 piani contenente una selva di tubi coibentati che vanno in ogni direzione a unire serbatoi, autoclavi, colonne di lavorazione alte 30 metri, e il tutto mosso da batterie di motori elettrici e compressori necessari per raggiungere pressioni di centinaia atm. E tutto l'impianto monitorato da una sala controllo che non è esagerato definire "spaziale": quadri di controllo che in tempo reale, e con i relativi grafici, indicano le molte fasi del processo produttivo. Una volta avviato l'impianto con l'assistenza dei tecnici distaccati da Witten, l'ambiente appariva nitido e pulito, esposto agli agenti atmosferici, ma quasi silenzioso, un silenzio rotto solo dal ronzio dei motori e dal sibilo degli sbuffi di vapore da tubazioni e valvole, e sempre attraversato da esalazioni e afrori delle sostanze chimiche. Amavo quasi il turno di notte, quando la "città della chimica", sfavillante di mille colori, si stagliava nella campagna circostante, e pochi di noi erano lì a presidiare il lavorio incessante degli impianti. Nella solitudine percepivi l'importanza del ruolo: ti sentivi un Capitano al timone della nave. Potrei dire di molti episodi e aneddoti meritevoli di essere ricordati, ma riconosco di essere pigro: a una delle molte selezioni cui ho partecipato (era il tempo dei Test attitudinali) mi fu diagnosticata la pigrizia come segno caratteristico. Riconosco di non essere un Vittorio Alfieri, quello del "Volli, sempre volli, fortissimamente volli", ma ho in mente un episodio singolare: in una pausa di lavoro, quando si scherza fra colleghi, a volte anche pesantemente, uno di questi, già sposato, confidava di contenersi nei rapporti coniugali per non "viziare la moglie", che cioè lei non si "abituasse troppo bene". Non ho memoria di risposte dai colleghi, mentre io ero ancora inesperto, quasi imberbe.